Sono passati più di due mesi dal 4 novembre, giornata in cui ogni 4 anni i cittadini statunitensi eleggono il loro presidente: due mesi piuttosto turbolenti: giunti forse all’epilogo ci si può fermare a riflettere, attraverso quattro istantanee

Notte davanti al video

Lo confesso: ad ogni votazione (nazionale o meno) mi fermo davanti allo schermo della tv e per le votazioni amministrative italiane anche davanti a quello del computer e ascolto e leggo lo snocciolarsi dei risultati che man mano si fanno più reali, il colorarsi delle cartine, segnale che il risultato è più o meno definitivo.  Siamo negli Stati Uniti e velocemente devo ricordare che gli stati colorati di rosso non son quelli vinti dai democratici, ma al contrario quelli assegnati ai repubblicani. E subito mi prende il panico: oh no! Trump sta rivincendo anche se i voti popolari sono numericamente superiori per Biden, ma negli Stati Uniti bisogna conquistare i grandi elettori degli Stati, per cui  i voti popolari devono anche essere ben distribuiti.

Per l’ennesima volta i sondaggi sembrano essersi sbagliati. Nell’iniziale spoglio, Trump sembra in grado di rivincere suscitando entusiasmo nei tifosi nostrani di destra presenti in tribuna (studi televisivi o collegamenti) e scoramento negli altri. Ma proseguendo nella notte cominciano ad essere scrutinati anche i voti che giungono per posta. Negli Stati uniti si può votare anche per posta e quest’anno, causa la pandemia, questo strumento è stato massicciamente utilizzato, grazie anche alla campagna per evitare gli assembramenti, fatta propria dai democratici. E man mano che vengono scrutinati questi voti la realtà si modifica, anche se con molta lentezza. E nel momento in cui si comincia a delineare la vittoria di Biden, arrivano impreviste (?) le dichiarazioni di Trump che denuncia brogli e si dichiara in ogni caso il vincitore.

Bisogna saper perdere

La reazione di Trump è coerentemente scomposta fin dall’inizio, giungendo di fatto ad aizzare una parte dei suoi elettori all’assalto al Senato. Tra i senatori avanza la proposta di utilizzare il 25esimo emendamento, che  prevede la destituzione del presidente in caso di impedimento, per salute o per incapacità di intendere. Ma questo è il punto: Trump è impazzito o in realtà rappresenta una parte significativa della cultura politica degli Stati Uniti? Pensare che Trump sia impazzito è consolatorio ma non spiega come mai una parte del suo elettorato sia convinta di essere stato defraudata di una vittoria. Può piacere o meno, ma Donald Trump non nasce dal nulla, è il rappresentante di una visione del mondo in cui le regole si rispettano solo se sono a proprio vantaggio, in cui le minoranze non contano (neri, donne o immigrati). È il rappresentante di elettori che vedono come fumo negli occhi la cultura e gli intellettuali e i giornalisti. Nel 2017, Furio Colombo ha scritto un libro (Trump power) in cui prendeva in esame i consiglieri di Trump, tutti poi collocati in posizione di rilievo nella sua amministrazione. No Trump non nasce a caso.

L’assalto al Senato

23 febbraio 1981 un gruppo di militari della guardia civil spagnola irrompe nella sede del Parlamento a Madrid, quattro anni dopo la fine del franchismo. Tentativo di golpe non riuscito. Guardando le immagini dell’assalto al Senato degli Stati Uniti la mente torna a 40 anni fa perché, pur sotto forme diverse come afferma una giornalista si tratta di un golpe e un brivido corre lungo la schiena: è vero questa sembra una farsa, ma non possiamo consolarci con il folclore. L’assalto testimonia che esiste una America profonda che fatica a riconoscersi nelle regole democratiche e serve a poco banalizzare le loro idee e i loro atteggiamenti. Farsa che avrebbe potuto portare anche vittime.

Si spegne la tv

Torno alla notte del 4 novembre. Sono passate le 4 e spengo la televisione. Mi riconosco, come sempre negli ultimi anni, tifoso, più contro qualcuno che mi spaventa: Biden dà l’impressione di una persona per bene, sicuramente un democratico, ma non è Bernie Sanders e nemmeno Barak Obama. Come mi capita da un po’ di anni mi rendo conto di essere costretto a scegliere una coalizione solo per difendere un minimo di decenza democratica e quindi a scegliere la meno peggio non la migliore. Con un po’ di malinconia vado a dormire consolandomi con l’elezione di Kamala Harris, prima donna eletta vicepresidente. La mattina dopo leggo sull’Internazionale che in Nuova Zelanda il partito laburista ha vinto le elezioni con quasi il 50% dei voti, senza rinnegare la sua natura di partito di sinistra e socialista. E mi torna il buon umore. Come ci si arriva in Nuova Zelanda?

Maurizio Grazio
Nato a Pisa il 13 luglio 1957. Per 20 anni è stato insegnante elementare. Fino ad agosto del 2020 è stato dirigente scolastico del Liceo Berto di Mogliano.

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