Al Novecento mia nonna Lucia si è affacciata con occhi sgranati, seduta su una carrozza tirata da un cavallo che la portava sposa ad un Giuseppe con baffi ben scolpiti da un rasoio medio borghese.
Non conosceva molto dell’epoca in cui viveva, se non gli echi che le provenivano dalle parole lente della provincia vicentina e le erano ignote le turbolenze di un’Europa di re e regine al declino, anarchici, suffragette, futuristi e rivoluzionari.
Conosceva piuttosto i turbamenti di una progenie femminile votata alla custodia delle tradizioni che collegi diretti da suore caste e ligie all’obbedienza impartivano alle giovani di buona famiglia. Educate al rispetto dell’autorità altro non potevano apprendere se non la dedizione al ricamo, alla cucina, alla cura dei figli, alla preghiera, scandita dai ritmi di una liturgia solo apparentemente legata ai dettami canonici, nella sostanza confusa alle stagioni in una continuità arcaica mai dimenticata o abbandonata.
Eccola, Lucia, volto incerto e corrucciato. Mi raccontava e il tono era contemporaneamente offeso e malinconico. C’era un rimpianto rassegnato e furibondo che trapelava dalle sue parole. Io ascoltavo curiosa e mi emozionavo a sentire le storie di bisnonni e trisnonni, quasi una favola. Non tralasciava dettagli quando raccontava di loro, ma quando accennava a come la sua vita fosse stata condizionata da scelte che le erano stata imposte, restava vaga sui particolari. Molto dopo, ero ormai adolescente, ha abbandonato la reticenza ed ha reso espliciti gli accenni, e negli anni, quegli eventi personali e del mondo che la circondava, in cui mi immergevo durante i racconti, hanno trovato legami, relazioni, spazi e il passato di una donna vissuta tra l’ottocento e il novecento si è legato al mio presente.
Aveva studiato per tre anni in collegio dalle suore Canossiane, assieme alla sorella Maria. Così si usava nelle famiglie che volevano preparare le giovani a comportamenti decorosi, anche in vista di un matrimonio che le accasasse dignitosamente, in modo che passassero direttamente dal controllo del padre a quello del marito.
Il ritorno a casa avveniva dopo due mesi, ci si spostava ancora in carrozza e i viaggi erano programmati con parsimonia dal padre che non ammetteva spese superflue. Si festeggiavano questi rari rientri a casa con la “Torta di fecola”, chiamata a volte anche “Torta sabbiosa”.
Una delizia non abituale. Il bisnonno teneva alla cintura le chiavi della dispensa e anche se la famiglia era benestante il motto era “Ghe xe più dì che luganega”.
Così, la sera, prima che le due ragazze arrivassero, Maria, la solerte domestica, assieme alla padrona di casa, si occupava di preparare questo dolce che anche nonna Lucia ci ha insegnato a fare. Il momento più bello era quello in cui lei sceglieva il centrino all’uncinetto da disporre sulla torta per decorarla. Lei dava un colino pieno di zucchero a velo a mia sorella ed a me, con quello si spolverizzava la superficie. Ci voleva destrezza e mano ferma per toglierlo in modo da non rovinare l’effetto ricamo. La ricetta originale indica una cottura che oggi sarebbe difficile realizzare. Lei assicurava che il metodo usato a quel tempo garantiva un risultato eccellente perché rendeva il dolce ancora più friabile e appunto “sabbiosa”.