La lingua inglese è, ormai da tempo immemore, la lingua veicolare per le comunicazioni in tutto il mondo. L’Inghilterra è stata la prima nazione in Europa a poter contare su di un vastissimo impero coloniale nel quale, come ebbe a dire il giornale Caledonian Mercury nel 1821, “il sole non tramonta mai”; ciò stava ovviamente a significare che i possedimenti erano sparsi sui cinque continenti. A tutt’oggi molti di questi paesi, la maggior parte indipendenti, fanno parte del cosiddetto “Commonwealth”,
L’inglese è diventato nel tempo la lingua di interscambio più diffusa sicuramente grazie al fatto che in moltissime ex colonie si è radicato sino a diventare la lingua ufficiale in molte di loro o, almeno, la seconda lingua, e anche grazie al ruolo di superpotenze mondiali che prima l’Inghilterra e poi gli Stati Uniti hanno assunto. Oggigiorno l’inglese serve per la comunicazione internazionale, gli affari, l’informatica, l’informazione, il cinema, la letteratura scientifica, l’economia, la musica e molto altro ancora.
Qual è però l’uso dell’inglese nella nostra vita quotidiana? La lingua in sé ci permette di dare un nome alle cose, alle persone, agli animali: se non esistono le parole manca la capacità di chiamare qualcosa e quindi si perde la possibilità di definirlo. Già G. Orwell, nel suo romanzo distopico “1984”, ci faceva capire come l’eliminazione di molte parole avrebbe portato all’impossibilità di definire alcuni concetti “pericolosi” per il regime del “Big Brother” e pertanto anche solo di poterne parlare.
Noi italiani siamo un popolo fantasticamente creativo quando si tratta di trovare la soluzione per superare i problemi: non siamo lineari come altre popolazioni, ma cerchiamo sempre di cavarcela, inventandoci spesso soluzioni nuove. Per quanto riguarda la nostra lingua però, a parere personale, siamo incredibilmente pigri: infatti lasciamo spesso che i prestiti dalle altre lingue, in special modo dall’inglese, vengano incorporati così come sono, senza cercare, almeno in alcuni casi, di mantenere le parole già esistenti o di crearne alcune nuove, che possano racchiudere in sé il concetto espresso dalla parola in lingua straniera.
Lo spagnolo, ma anche il francese, sono lingue che si “proteggono” molto di più: prendono prestiti da altre lingue, ma spesso nel fare ciò non “copia-incollano” queste parole, bensì riprendono la parola straniera adattandola al proprio alfabeto (ad esempio beisbol, pinpón, cruasán, ecc.) quando non ne creano una propria (ordenador per “computer”). In tutto ciò ovviamente le parole in inglese sono comunque conosciute dalla stragrande maggioranza della popolazione (soprattutto giovane), come accade in Italia.
Weekend, fashion, blog, call, cool, computer, mouse, wifi, food-blogger, influencer, start-up, spread, sport, hobby, basket, e-mail e moltissime altre ancora sono parole inglesi che tutti noi usiamo correntemente. Se in alcuni casi la traduzione potrebbe suonare ridicola (ad esempio mouse si tradurrebbe “puntatore”), in altri casi molto semplicemente usiamo l’inglese perché è più internazionale, più “cool”, perché va più di moda. Chiamare il weekend “fine settimana” non è una storpiatura, è la nostra lingua, né lo sono le traduzioni di fashion “moda”, di hobby “passatempo”, di call “chiamata”.
Sarebbe quindi opportuno fare un lavoro di elaborazione seria sulla lingua, accettando solo quelle parole oggettivamente intraducibili in modo semplice ed immediato o già entrate da tempo nel linguaggio comune di tutti (penso ad esempio alla parola “computer”), e cercando invece traduzioni o adattamenti plausibili per le molte parole che li potrebbero avere.
Lavoro sulla nostra lingua quindi ma, parallelamente, anche sulla lingua straniera: troverei opportuno potenziare lo studio dell’inglese (e, più in generale, delle lingue straniere) a tutti i livelli, più ancora di quanto non si sia fatto finora, implementando molto la metodologia CLIL (ossia, ad esempio, storia spiegata in inglese) già dai gradi inferiori di istruzione.
La protezione della lingua non è chiusura verso la conoscenza di altre lingue, anzi: è la protezione di una storia e di un modo di esprimere molti concetti e definizioni diverso dalla storia e dal modo di esprimere concetti in altre lingue. Il mondo è connesso, le barriere linguistiche non esistono più, ma non dobbiamo perdere la nostra inventiva, la capacità di rimodellare la lingua italiana, di farla rivivere grazie a nuove parole, anche riprese dall’esterno, ma adattate al nostro paese e alla nostra cultura. Il Sommo Poeta ha creato una lingua con parole che già conosceva ma molte altre, più o meno fantasiosamente, le ha create come calchi da altre lingue proprio per poter dare un nome anche nella lingua italiana a cose che un nome ancora non lo avevano. Ora il nostro compito è di dare un nome a parole già esistenti in altre lingue, e anche di crearne di nuove, attingendo a quell’inventiva e a quella sana follia che ci ha sempre caratterizzato e ci caratterizza tutt’ora come popolo.