La missione: percorrere gli argini dello Zero nel territorio moglianese, che detta così sembra facile, una decina di chilometri, invece è una piccola impresa. Una sorta di mini “Cuore di tenebra” di Conrad. “Chi zeo?”. Questo è Davide, mi accompagna lui. Anche lui è un militante degli scettici blu, ha una parola sprezzante per tutti, è un nativo negativo però ha deciso di accompagnarmi perché secondo lui “Te si na cia”. Comincio con le traduzioni “… Sei un incapace”.
Azzeriamo il contachilometri, mi attardò sul pulsantino, “ ‘Ndemo mona”, tr. “Andiamo sciocco” e via da ponte Tasca, una sorta di confine a tre: Scorzè Zero Branco e Mogliano.
Argine sinistro, decido io, e dopo duecento metri il sottopasso dell’autostrada. Rombo di camion fastidioso, neanche un albero di mitigazione, ci sono anche tracce di motocross, stiamo zitti, è una brutta partenza. Dura poco per fortuna, dopo trecento metri e un paio di indolenti anse ritroviamo lo Zero che ci piace. Una serie di piccoli platani e aceri come siepe, un’agricoltura rilassata, e sullo sfondo qualche campanile. A sud Peseggia e Gardigiano, a nord, più o meno, Campocroce e Sambughè. Nell’idillio Davide porcheggia contro l’erba alta e io ho paura di essere inghiottito vivo da un carbonasso. C’è un tiglio da cartolina dall’altra parte della sponda, un tetto spiovente giapponese, delle case rosse coloniche senza tempo con lo sfondo dell’autostrada finalmente silenziosa. Fotografo. Poi appare una specie di stagno vivo e frequentato da infastidite gallinelle, è la vasca di laminazione e di naturalizzazione, tutto artificiale e tutto rifatto però mi piace un sacco. Se arriva una piena si riempie, intanto ci sguazzano ed ingrassano migratori vari, ci metterei i piedi dentro. “Bauco, cussì te ciapi a leptospirosi” (tr. imprudente ti potresti contagiare).
Ci avviciniamo al mulino di Campocroce, e qua c’è il primo cambio di argine. Si passa alla “bastarda”, cioè a quel canale che aggira i mulini evitando loro le devastazioni di una piena e magari il passaggio (allora…)di un’imbarcazione. Infatti, passiamo incolumi accanto all’ex mulino (ristorante) e attraversiamo anche la strada asfaltata. Tutto naturalmente dimenticandomi del chilometraggio. Siamo a soli ma intensi due chilometri e mezzo dal ponte Tasca e riprendiamo lo Zero, con un altro cambio argine, il sinistro. Vicino scorgo la gelateria di Donadel. Tentato e goloso spiego a Davide che il loro yogurt dà tossico dipendenza e la panna è senza ritorno, lui, incorruttibile, mi dà del diabetico e si va avanti.
Altre anse esaustive e poi arriviamo al ponte dei Sc/evani che poi sarebbe un robusto ponte pedonale. Una volta era una provvisorissima passerella dove si dice sia passato anche Casanova in fuga. Mi offro di raccontare questa storia. Davide dice che non gliene frega meno di niente. Si prosegue.
Poco distante una curiosità: l’unico bel graffito di Mogliano, un insettone da fotografare su un rudere cadente. Arriva un altro sottopasso invece con tutte le volgarità urbane che il verde ci aveva fatto dimenticare, vabbè è così. Poi l’idillio ritorna e ci sono altre vasche di laminazione vicino alla grande rotonda. Si risentono i fastidiosi motori-rumori-odori di auto e camion. Passano subito ma controlliamo le tane delle nutrie e Davide dice “Bisognaria coparle tutte!”. Traduco: “Dovremmo convincerle a cambiare stile di vita”.
Altri due tigli monumentali e una casetta rossa che si specchia tremula sull’acqua. Mi sono dimenticato che siamo passati sull’argine destro perché sul sinistro c’è un signore che non ama molto gli arginauti. Evitiamo grane. Ed ecco invece il ponte della ferrovia. Sbarramento insuperabile? Ma neanche per sogno. C’è il trucco. Allora quando si arriva sulla strada sterrata, via Sabbioni (che bella! Finalmente una senza asfalto) si prosegue per un centinaio di metri. A sinistra si trova un piccolo varco sotterraneo e… miracolo si passa dall’altra parte. Stretto, maleodorante, scivoloso, panteganoso. Mi piace da matti e lo chiamano il ponte (?) dei partigiani. Non so perché ma mi ricordo che mio padre mi raccontava che durante la guerra in quel punto avevano bombardato la ferrovia e che si era rovesciato un vagone con dentro della farina e metà paese aveva mangiato per una settimana. Dopo una concentrazione di architettura varia in via Buratti attraversiamo il Terraglio. Ci lasciamo alle spalle il mulino Valerio, imbocchiamo via Macello. Davide dice la prima cosa umana “Bevaria na bira”. Non traduco e condivido.
Siamo a cinque chilometri e sei dalla partenza e si continua…