So bene cosa rappresenti il tifo per una squadra o per la nazionale. Da bambino (perché è soprattutto a quell’età che si radica) alla messa domenicale del fanciullo, dopo essermi comunicato nel duomo di Mogliano, pregavo nostro Signore perché facesse vincere l’Inter. Gli supplicavo anche il risultato, generalmente due a zero a favore dei colori nerazzurri. Nella mia giovinezza, e poi più oltre, ho assaporato la vittoria della Nazionale di calcio agli europei di Roma, quelle ai mondiali di Spagna e Germania, e adesso questa qui degli europei londinesi. In questi e altri eventi mi sentivo addosso (e ancora in parte sento) un groviglio di emozioni, sentimenti, pulsioni, nelle vittorie come nelle sconfitte. Da una parte della medaglia c’era la gioia di una grande vittoria, l’orgoglio e il senso dell’appartenenza, oppure la rabbia per l’umiliazione subita. Ma dall’altra circolava in me un atteggiamento incattivito contro gli avversari, di dileggio e di offesa, specialmente contro certe nazionali. È quel che è capitato domenica scorsa agli inglesi, che prima hanno sonoramente fischiato l’inno italiano (i tifosi), poi si sono levati dal collo e con disprezzo la medaglia della sconfitta (i giocatori). Il problema è che dietro il tifo si nasconde un concetto assai pericoloso, che ancora oggi (qualcuno direbbe che con quel che si legge nei social è quanto mai d’attualità) condiziona i nostri animi: è l’idea di “nazione”. È un’idea oscura, che nella storia ha prodotto guerre e conflitti, sopraffazioni e milioni di morti, ingenerandone un’altra ancora più assurda e pericolosa: quella del razzismo. Ci dimentichiamo sempre che noi siamo solo abitanti del pianeta verde azzurro che è fatto di terra, di acqua, di cielo, e che i confini e le graduatorie fra i popoli sono il frutto delle pulsazioni della nostra ignoranza, non il risultato di una intelligente umanità. Qualcuno potrà obiettare che non si può neanche godere di una vittoria da tempo cercata e così prestigiosa, che subito arriva la morale. No no, godiamocelo pure questo trofeo, magari con quella sportività (spesso e retoricamente chiamata in causa per nascondere i peggiori istinti del tifo) che saggiamente ci ricorda, come dice il mister Roberto Mancini, che in fondo è solo una partita. Come dire che è bene non prenderci mai troppo sul serio e senza mai dimenticare che transitiamo in un mondo di per sé senza confini, fatto di terra, di cielo, di mare.