Se ci sono dei libri che invecchiano in fretta, in funzione di un mercato- centrifuga, sempre a rimorchio di social e media, non è certo il caso di questo saggio di Federico Rampini, che, pubblicato poco meno di un anno fa, risulta più che speculare al periodo che stiamo vivendo. Non solo riguardo al modo proverbialmente lacunoso con cui la nostra civiltà si approccia all’ Oriente (dal Kundalini al Kamasutra, dal Buddismo allo Yoga), ma perché vengono messi in risalto i difficili rapporti di sincretismo tra l’una e l’altra cultura. Rispetto ai quali prevale ora più che mai la realtà di un Oriente sempre più occidentalizzato. A partire dalla Cina, sulla quale Rampini osserva: “Il boom degli ultimi trent’ anni è semplicemente l’innesto di un modello globalmente occidentale su una popolazione di un miliardo e quattrocento milioni di persone, che avevano già avuto tradizioni mercantili e imprenditoriali”. In breve noi cerchiamo e vagheggiamo un Oriente che ormai da tempo è intriso di strati di Occidentalismo, che anche nella drammatica vicenda dell’ attuale pandemia, offre prospettive di confronto e scontro, secondo un eclettismo in cui a farla da “padrone” più che Confucio o Budda, sembra essere il Platone de: ”La Repubblica” e non c’è da autocompiacersene troppo, almeno sino a quando, osserva ancora Rampini, l’ Occidente non arriverà a rendersi conto che: “ Rispetto alla centralità dell’ Asia, di Oriente non ce n’ è uno solo” .
“Non è una buona pubblicità per lo yoga. Ma sbaglio a dire questo: lo yoga non c’entra niente, il problema sono io. Lo yoga tende all’ unità e io sono troppo diviso per raggiungerla”. È una delle riflessioni a cui Emmanuel Carrére si lascia andare in questo bel libro, che un po’ diario un po’ romanzo- reportage ci fa vivere tra coraggio e momenti di sconforto quello che per lo scrittore è il risultato di trent’ anni di pratica di questa disciplina, finalizzata a sconfiggere la sua nevrosi. Un resoconto che tanto negli aspetti critici, quanto in quelli costruttivi risulta prezioso per comprendere l’evoluzione dello Yoga, sempre più apprezzato negli ambienti scientifici, anche viene praticato all’ insegna di contaminazioni non sempre edificanti (c’è chi insegna ad esempio l’Hashtag yoga a tempo di musica metal e techno- house, andando molto al di là dei principi dinamici e ginnici che questa branca dello yoga pur contempla). Cosa non meno evidente nel caso dello psichiatra praghese Stanislav Grof, che con la sua” respirazione olotropica”, non fa altro che vendere a parcelle decisamente più alte quelle che sono le tecniche legate al pranayama e al controllo della respirazione previste in una qualsiasi lezione di Yoga. Per tornare al libro di Carrère la sua scrittura ha il fascino di chi lancia, pasolinianamente parlando, il proprio corpo in una lotta difficile e appassionata, nella misura in cui è in gioco il raggiungimento dell’equilibrio dinamico tra corpo e mente, all’ insegna di una costante e per nulla scontata predisposizione all’ascolto degli eventuali benefici o distonie che si possono percepire in corso di pratica. Per concludere un libro di grande valore, assolutamente consigliabile sia a coloro che tra dubbi e senso di inadeguatezza, decidono di portare avanti il loro percorso perché i benefici sono in ogni modo riscontrabili, sia per chi decide, con non minore cognizione di causa, di lasciare perdere.
Ecco un libro anticonvenzionale e ben poco pedante benchè scritto da un docente di Letteratura italiana presso la Royal Halloway University di Londra. Quello che subito colpisce è il modo con cui Stefano Jossa, partendo dalla pasoliniana distinzione tra lingua italiana egemone e lingua borghese, esce come Pasolini, da quest’ ultima dimensione per analizzare i punti di convergenza tra i modelli letterari canonici, rispetto ai quali la nostra lingua è stata per troppo tempo legata al mito della torre d’ avorio e dell’Italiano di registro alto, con quelli dell’Italiano veicolare, la cui poetica, legate è riconducibile tanto ai dialetti presenti nella poesia che nella canzone d’ autore. Non mancano riferimenti ai limiti e alle potenzialità della rima, retaggio inevitabile di entrambi i generi e agli aspetti evocativi della metafora, analizzata anche in chiave parodica come “a’ metafa’”, in riferimento agli sketsches dei guzzantiani Rokko Smitherson e del sovversivo liceale Lorenzo (quello che in: “Avanzi 3” si rollava le canne col Ketchup).
Jossa traccia, dunque, un percorso decisamente interessante sul rapporto evolutivo di una lingua che passando per il Leopardi da Festival di Sanremo (edizione 2018) evocato dall’ attore Pier Francesco Favino, attraverso i Congiuntivi sbilenchi dell’On. Luigi di Maio arriva a delle suggestive e tutt’ altro che arbitrarie analogie tra la dantesca: “Tenzone con Forese Donati” e le aggressive assonanze della metrica Rap e Hip- Hop di Fedez e Caparezza. Non senza toccare gli aspetti legati al troppo inflazionato concetto di populismo del quale non di meno si insiste ultimamente e non sempre a ragione, troppo. Senza che si perda mai di vista un concetto apparentemente ovvio, ma che a volte ci sfugge: “non c’è lingua senza condivisione”.