Quasi tutto ciò che sappiamo del colonialismo italiano lo dobbiamo ad Angelo Del Boca, lo storico scomparso qualche giorno fa all’età di 96 anni. Nonostante le sue ricerche, oggi, nell’anno di grazia 2021, nessun manuale di storia della scuola secondaria accenna alla deportazione delle popolazioni nomadi della Libia nei campi di concentramento della Cirenaica negli anni Trenta, mentre l’uso dei gas durante la guerra d’Etiopia 1935-36 viene citato senza però essere contestualizzato e messo in relazione con le altre forme di repressione adottate dall’esercito italiano.
Il motivo? Siamo ancora prigionieri di una lettura canonica di un colonialismo “all’italiana”, un colonialismo buono e portatore di “civiltà” – quindi di una civiltà superiore – dove i massacri, i rastrellamenti, i campi di concentramento, l’uso dei gas, non costituiscono nemmeno dei dettagli. Perché fa ancora comodo quella che Nicola Labanca ha efficacemente definito «la rassicurante favola degli “italiani brava gente”», come si vede anche da un volume pubblicato da Neri Pozza nel 2005. Una favola che continua ad essere raccontata anche perché trova settori politici, culturali e mediatici fertili ed un pubblico (pre)disposto a crederci.
Ecco, se oggi possiamo riflettere criticamente sulla storia del colonialismo italiano lo dobbiamo innanzitutto a uno studioso come Del Boca, che non solo ha alzato il velo su quanto vi era di rimosso a livello storiografico, ma ha smontato, documenti alla mano, i tanti luoghi comuni che hanno accompagnato per decenni la memoria di quella esperienza. A cominciare dall’uso dei gas durante la guerra d’Etiopia o delle aggressioni contro le popolazioni indigene sia in Libia, che in Etiopia. Tra le due guerre mondiali l’Italia fu uno dei pochi paesi ad utilizzare i bombardamenti chimici contro le popolazioni coloniali. Impiegati su vasta scala durante la Grande guerra, i gas vennero banditi nel 1925 attraverso un trattato della Società delle Nazioni, poi ratificato dall’Italia stessa nel 1928. Inutile dire che il divieto di utilizzo non riuscì ad arrestare la ricerca, la produzione e la sperimentazione di aggressivi chimici sempre più letali e, nel caso dell’Italia, neppure l’impiego, tra il 1923 e il 1931, di fosgene ed iprite nei confronti delle popolazioni dell’entroterra libico e del loro bestiame.
Se dunque la cosiddetta «pacificazione» della Cirenaica passò anche attraverso l’uso dei gas, fu però con la guerra d’Etiopia che il ricorso all’arma chimica fece un salto di qualità, con la piena ed entusiastica approvazione di Mussolini e dei vertici militari. Un ruolo chiave nella guerra chimica italiana fu assunto dall’aeronautica e dall’impiego massiccio delle bombe caricate ad iprite, «un liquido corrosivo, i cui vapori (prodotti da un’esplosione) erano mortali, ma che agivano soprattutto sotto forma di goccioline, che penetravano attraverso gli indumenti e la pelle, producendo lesioni interne di varia gravità, fino alla morte, anche a distanza di uno o più giorni».
Nella testimonianza del ras abissino Immirù, il ricordo di un bombardamento ad iprite assume toni drammatici: «Era la mattina del 23 dicembre [1935] e avevo da poco attraversato il Tacazzè, quando comparvero nel cielo alcuni aeroplani. Il fatto, tuttavia, non ci allarmò troppo, perché ormai ci eravamo abituati ai bombardamenti. Quel mattino, però, non lanciarono bombe, ma strani fusti che si rompevano, appena toccavano il suolo o l’acqua del fiume, e proiettavano intorno un liquido incolore. Prima che potessi rendermi conto di ciò che stava accadendo, alcune centinaia tra i miei uomini erano rimasti colpiti dal misterioso liquido e urlavano per il dolore, mentre i loro piedi nudi, le loro mani, i loro volti si coprivano di vesciche. Altri, che si erano dissetati al fiume, si contorcevano a terra in un’agonia che durò ore. Fra i colpiti c’erano anche dei contadini, che avevano portato le mandrie al fiume, e gente dei villaggi vicini. I miei sottocapi, intanto, mi avevano circondato e mi chiedevano consiglio, ma io ero stordito, non sapevo che cosa rispondere, non sapevo come combattere questa pioggia che bruciava e uccideva».
L’opinione pubblica internazione venne a conoscenza immediatamente dell’impiego dei gas da parte dell’aggressore fascista e durante il 1936 si moltiplicarono le denunce soprattutto da parte della Croce Rossa. Nel luglio di quell’anno, quindi dopo la proclamazione dell’Impero, una rivista francese pubblicò la testimonianza autorevole di Hailè Selassiè che condannò lo sterminio avvenuto attraverso i gas: «Ogni essere vivente che veniva toccato dalla leggera pioggia caduta dagli aerei, che aveva bevuto l’acqua avvelenata o mangiato cibi contaminati, fuggiva urlando e andava a rifugiarsi nelle capanne o nel folto dei boschi per morirvi […]. C’erano cadaveri dappertutto, in ogni macchia, sotto ogni albero, ovunque ci fosse la parvenza di un rifugio. Ma ce n’erano anche di più all’aperto, in piena vista, perché la morte veniva in fretta e molti non avevano il tempo per cercare un rifugio per morirvi in pace. Presto un odore insopportabile gravò sull’intera regione. Non si poteva però pensare di seppellire i cadaveri, perché erano più numerosi dei vivi. Bisognò adattarsi a vivere in quel carnaio. Nel prato vicino al nostro quartier generale più di cinquecento cadaveri si decomponevano lentamente».
Le proteste non valsero comunque un mutamento d’indirizzo, anzi Mussolini autorizzò l’uso dei gas anche dopo la conclusione della guerra, e almeno fino agli ultimi mesi del 1937, per reprimere la resistenza abissina e quella delle popolazioni civili; successivamente venne invece preferito l’uso di bombe incendiarie per distruggere i raccolti e togliere alla guerriglia ogni fonte di sussistenza.
E gli italiani cosa “sapevano” e poi “hanno saputo” o meglio “hanno voluto sapere” dell’uso dei gas? Celata all’opinione pubblica italiana durante il regime fascista, nell’Italia repubblicana, si cercò di occultare ogni tipo di prova – la guerra chimica nel dopoguerra rimase a lungo un tabù e i pochi studiosi che ne parlavano furono accusati di falso e di vilipendio delle forze armate. Le resistenze, oltre che dagli ambienti militari, provenivano da ampi settori della destra e dalla stampa reducista che del periodo coloniale continuavano ad esaltare gli aspetti umanitari che il fascismo, a loro dire, aveva portato. Contro Del Boca, che nel 1965 aveva pubblicato un primo volume nel quale l’impiego dei gas in Etiopia era ampiamente documentato, venne scatenato un autentico linciaggio pubblico. Dopo gli attacchi da parte del generale Emilio Faldella, toccò all’ex ministro dell’Africa italiana, Alessandro Lessona, vestire i panni del difensore dell’Impero, respingendo per anni qualsiasi accusa, ma costretto poi, di fronte all’evidenza delle prove a convenire con Del Boca. Probabilmente questa sarebbe rimasta una polemica tra vecchi generali e storici se a favore dei primi non fosse intervenuto nel dibattito Indro Montanelli, tenacemente convinto (salvi poi ammettere l’evidenza) che, in base alla sua esperienza in Africa, i gas non fossero mai stati impiegati. A dissolvere tutti i dubbi – anche quelli di coloro che, per dirla con Montanelli, «c’erano» – contribuirono alla fine tre interrogazioni parlamentari e il pronunciamento del governo Dini tra il 1995 e il 1996. Rimane però la lunga rimozione operata per decenni a livello pubblico, giocata sulle continue accuse di falso, di uso parziale dei documenti ed infine di antipatriottismo rivolte agli studiosi.
A differenza di molti suoi colleghi giornalisti che nella parte terminale della loro carriera si dedicano alla divulgazione, Del Boca si può definire uno storico a tutto tondo, con la S maiuscola, il cui lavoro è fatto di ricerca e documentazione e confronto tra i reperti. Questo non nasce a caso: la biografia di Del Boca è lì a testimoniarlo. Del Boca nasce nel 1925 e nel 1943 entra nella Resistenza nella Val d’Ossola. Terminata la guerra partigiana, comincia a lavorare nel giornale socialista di Novara. Passa quindi alla “Gazzetta del popolo”, dove per tutti gli anni ’50 si dedica al lavoro di invito speciale in Italia. Il Paese è appena uscito da una guerra che ha portato macerie e povertà e l’occhio del giornalista si ferma ad analizzare queste situazioni critiche, non fermandosi ad uno sguardo superficiale, ma scavando in profondità per riuscire a far conoscere quelle realtà. Agli inizi degli anni Sessanta diviene corrispondente dall’estero e i suoi primi reportage riguardano l’Algeria, il Sudafrica e i Paesi che ottengono l’indipendenza nel 1960. Terminata l’esperienza giornalistica passa alla storia dell’Italia coloniale, con lo stesso meticoloso metodo di lavoro utilizzato come inviato speciale. Purtroppo, molti dei suoi libri non sono reperibili. Speriamo, come è già successo con Italiani brava gente? che qualche editore decida di ripubblicare alcuni dei suoi testi più importanti.