Giuseppe Berto non era un intellettuale.
Ma era un talento narrativo, puro.
(in primis: “Il cielo è rosso”; “Il male oscuro”).
Per molto tempo soffrì l’emarginazione dettata dalle congreghe letterarie (soprattutto di quella romana) perché assai spesso molti critici sono così (tagliano o promuovono a piacimento i destini degli artisti, in nome di un fantomatico carisma).
Si dice che ciò dipendesse dalla sua passata, giovanile adesione al fascismo (ne pagò le conseguenze rimanendo prigioniero in un campo di concentramento in Texas, dove scrisse “Il cielo è rosso”).
Ma in realtà Bepi Berto era un anarchico, un uomo che aveva conquistato la religione della libertà, passando oltre i niet di ogni schieramento politico (tant’è che scelse di presentare in prima assoluta il suo libro “La passione secondo noi stessi” nella chiesa del Sacro Cuore di Gesù a Mogliano, durante la messa ultima, assieme al “prete rosso” don Gianni Gottardi, che “rosso” non fu mai, semplicemente evangelico).
Soprattutto, in virtù di questa amara esperienza esistenziale e relazionale, si sforzava di incoraggiare i giovani talenti oltre i salotti letterari, le sfilate di chi si appropriava del suo nome per affermare il proprio, il grigiore di chi doveva aprire nuove strade rimanendo invece saldamente ancorato ai privilegi di quelle vecchie.
Fu uno scrittore coraggioso, fuorischema, innovatore “veneto barbaro”.
C’è da riflettere quando si parla o si fa in nome di Giuseppe Berto.