Una volta venne avvicinato da una donna per chiedere consiglio. Era molto preoccupata perché aveva un figlio piccolo, portatore di una malattia cronica che richiedeva una dieta molto severa, che il piccolo rifiutava di seguire nonostante le insistenze materne, mettendo così a rischio la propria vita. Gandhi, dopo essersi fatto spiegare bene tutto quanto, rispose alla donna chiedendo che gli portasse il figliolo dopo una settimana, perché prima non avrebbe avuto modo di affrontare la questione. La donna accettò e torno dopo una settimana, conducendo con sé il figlio. Gandhi prese il piccolo per mano e si sedette in un angolo, a parlare fittamente insieme con lui un po’ di tempo. Tornarono poi insieme dalla donna, con il piccolo che gridò trionfante “Mamma ho deciso, farò la dieta come chiedi tu”. La mamma fu piacevolmente sorpresa, anzi proprio stupita, forse anche un po’ gelosa di questo fulmineo successo. Tanto da chiedere al Mahatma:
“Come hai fatto a convincerlo in così poco tempo?”
La risposta fu, a parer mio, disarmante:
“Durante questa settimana mi sono sottoposto alla stessa dieta che serve al tuo bambino”
Un episodio – metafora molto istruttivo:
non si può chiedere agli altri di fare ciò che noi stessi non facciamo, a volte nemmeno conosciamo;
il dialogo con le persone è l’unico modo per provocare un cambiamento utile, se però è preceduto dal nostro cambiamento, dalla nostra esperienza diretta, la più simile possibile a quella dell’altro che ci interessa. Certamente un uomo adulto ha maggiori capacità di un ragazzo di sottomettersi a una dieta sgradevole ma un po’ di somiglianze insieme a un po’ di differenze sono l’apriporta di un dialogo, di un colloquio comunque stimolante, piacevole; il successo, ottenuto con una facilità solo apparente, è frutto di preparazione, sacrificio (sacrificio = sacrum facere, compiere gesti di valore, che hanno un valore indiscutibile, spirituale, gesti capaci di innalzarci dalla routine quotidiana), il tutto senza esibizionismo, pompa, rivendicazioni. Il modo giusto per trasmettere, anche a una mamma che reagisce in modo un po’ invidioso, un po’ geloso chiedendo “Come è possibile che tu riesca a ottenere in pochi minuti ciò che mi ha fatto sgolare inutilmente per tanto tempo?”
Ecco… forse anche noi ci sgoliamo, pretendendo un cambiamento dall’altro, lo pensiamo incapace se non ci riesce, senza essere noi autoriflessivi per comprendere, senza l’umiltà di metterci in silenzio alla prova e capire il nostro limite, che è insieme esperienziale e relazionale. Dopotutto, compagno deriva da cum panis, mangiare lo stesso pane, quindi avere simili esperienze di vita, è questo che ci affratella, crea relazione, fiducia, disponibilità al cambiamento. E credo che oggi più di sempre noi tutti si abbia bisogno di fratellanza, di fraternità vera vissuta goduta e gratificante.
Capiterà così raramente di essere obbligati a fare una dieta scomoda? Se riconosciamo la dieta come metafora di un periodo di tempo della nostra vita impegnativo, faticoso, che ci ha chiesto di “mandar giù” amarezze, cattiverie, sofferenze magari inutili, solitudine, minacce per la salute… ebbene credo che tutti gli adulti e purtroppo un buon numero di bambini e ragazzi abbiano fatto, anche più volte, l’esperienza di una dieta del genere. Di solito tendiamo a dimenticare, a mettere in un angolo negletto della memoria, della coscienza, le nostre esperienze negative, “lontane dagli occhi”, per così dire. In generale è un sollievo, certamente, però i neuroni, la mente, la memoria conservano tutto.
Così, per esempio, mettiamo in riposo la nostra esperienza di ciclisti mentre ci occupiamo di altro; poi, quando ci capita di inforcare la bici, di vedere qualcuno che pedala, dal vivo o in televisione, subito ci torna alla memoria la nostra competenza. Credo proprio che si possa fare altrettanto quando la vita ci fa incontrare qualcuno, anche estraneo, costretto a una dieta amara. In quel momento possiamo richiamare alla memoria la nostra, di dieta, rendendoci così più comprensivi nel senso pieno della parola, più accoglienti, più capaci di stare insieme con l’altra persona e di dialogare, di coltivare insieme un cambiamento, di avere la soddisfazione di pensare che l’aver sofferto dopo averci fatto crescere ci ha donato la possibilità di accompagnare qualcun altro in un liberatorio attraversamento della sofferenza.
Chi ha avuto la gioia e la fortuna di incontrare un Mahatma in un momento cruciale della propria vita conosce il sentimento di gratitudine, di benessere, di fiducia, la benedizione che gli si invia e che nutre noi stessi e ci rincuora. Allora, così, come ultimo promemoria dico: ognuno di noi si trova periodicamente nelle vesti del bambino, o in alternanza, della sua mamma. Con un piccolo sforzo, possiamo riuscire anche ad indossare, almeno ogni tanto, non indegnamente, i panni di Gandhi. Ce lo meritiamo tutti, lo giuro.