Sono passati già cinque anni dalla scomparsa di Tina Anselmi (1927-2016). Una grande trevigiana, veneta e italiana. Una donna che ha attraversato il Novecento lasciando una traccia che è difficile da cancellare. Oggi manca il suo rigore morale, la sua sobrietà, il suo senso dello Stato. Ho scritto più volte che nessun politico ha incarnato meglio di lei lo spirito autentico dell’art. 54 della Costituzione, servendo le istituzioni “con disciplina ed onore”. Nei suoi appunti tenuti negli anni della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia massonica P2 scrisse una frase che mi ha sempre colpito e che andrebbe scolpita con lettere di bronzo: “La verità possono cercarla solo quelli che hanno la capacità di sopportarla”.
Dal punto di vista politico Tina Anselmi rimane un esempio destinato a essere imitato forse, ma non eguagliato: “Dovremmo riflettere sul fatto che la democrazia non è solo libere elezioni, non è solo progresso economico. È giustizia, è rispetto della dignità umana, dei diritti delle donne. È tranquillità per i vecchi e speranza per i figli. È pace”. Sentiamo spesso dire che la Costituzione va attuata. Ecco, lei l’attuò come pochi altri in quella finestra terribile degli anni Settanta, realizzando, nel concreto, un prolungamento del suo essere stata partigiana disarmata. Anzi, non smettendo mai quei panni di staffetta della democrazia, dalla Resistenza all’impegno sindacale, dalla militanza di partito ai ruoli di governo. Portando la bicicletta e le gambe di “Gabriella” dentro le istituzioni.
La Resistenza, appunto. Quella che Tina Anselmi visse ancora adolescente, quando all’improvviso capì “che per cambiare il mondo bisognava esserci”. Bassano del Grappa, settembre 1944. Dopo il rastrellamento quattordici giovani furono fucilati nel cortile a sud della caserma Reatto ed altri trentuno furono impiccati a Bassano e lasciati appesi agli alberi di Viale Venezia, Via Brigata Basilicata e Via XX settembre, oggi Viale dei Martiri. La mattina dopo tutti gli alunni delle scuole bassanesi furono obbligati a vedere il terribile epilogo del rastrellamento, che avrebbe dovuto servire da monito a tutta la popolazione e a stroncare ogni forma di resistenza. Tra loro c’era anche Tina Anselmi: “Questo episodio, l’ultimo di tanti, ci obbligò a dare una risposta concreta a un interrogativo che ci ponevamo da molti mesi: cosa possiamo fare? Stiamo qui e guardiamo? Potevamo assistere alla sofferenza, a quello che avveniva intorno a noi senza fare niente? Dovevamo agire per non aggravare la situazione. Per non sentirci corresponsabili dei massacri”. Un racconto che ho avuto modo di sentire anche l’ultima volta che l’ho incontrata, nell’aprile del 2005, poco tempo prima che la malattia la costringesse a diradare i suoi appuntamenti pubblici. In quell’occasione eravamo a Pieve di Soligo, assieme ad Andrea Zanzotto, in un teatro strapieno per la presentazione della bella antologia Racconti della Resistenza curata da Gabriele Pedullà.
Ma la grandezza di Tina Anselmi si misura pensando anche al Veneto degli anni Settanta, percorso dalle trame dell’eversione nera e terreno fertile pure per il terrorismo di sinistra. Una regione da dove partivano le valige e le bombe, un crocevia di ideologia e violenza che correva sulla linea Castelfranco-Padova. Giunse in Parlamento alla vigilia dell’inizio della strategia della tensione, della strage di Piazza Fontana. Operò come donna di governo negli anni della solidarietà nazionale, alla guida di ministeri chiave nei quali lasciò traccia del suo passaggio. Fu chiamata a un compito titanico all’indomani della scoperta della P2, non esattamente un circolo ricreativo o una combriccola di amici che volevano discutere di politica. La Prima repubblica stava marcendo: Tina Anselmi la salvò dal disonore estirpando quel tumore destinato a diventare una metastasi. Cercò e trovò la verità. Anche se non faceva comodo a molti suoi colleghi. La Repubblica sarebbe perita un decennio dopo, ma lei non poteva più difenderla dai ladri e dal malaffare che albergavano anche nel suo partito.
Politicamente Tina Anselmi cominciò a morire con la conclusione dei lavori della Commissione P2. La sua tenacia e pignoleria nel condurre i lavori non le furono mai perdonate. Evidentemente molti avevano pensavano a lei come una figura mite e arrendevole. Si sbagliavano. Una donna per certi versi molto simile ad Angelina Merlin, ricordata quasi esclusivamente per l’abolizione delle case chiuse, ma che in realtà fu artefice di conquiste cruciali sul fronte delle pari opportunità e dei diritti dell’infanzia. Entrambe, Merlin e Anselmi, accomunate dal destino di essere state alla fine emarginate dai rispettivi partiti. Probabilmente punite per essere andate oltre, o semplicemente per aver fatto quello che sentivano come un dovere. Allergiche alle correnti e quindi vittime dei giochi di potere di altri.
Recentemente Gianna Anselmi ha rivelato un episodio poco noto relativo alla sorella: «A Tina, a un certo punto, venne offerto di fare la sindaca di Venezia. Per lei sarebbe stato un onore ma anche un compito impegnativo. Decise di rinunciare perché non si sentiva abbastanza preparata, disse “per fare la sindaca servono delle competenze e delle conoscenze che non ho”». Molti dissero che sarebbe stata un’ottima presidente della Repubblica. Certo, ma qualcuno avrebbe dovuto candidarla con convinzione. E chissà cosa sarebbe successo se nel 1995 il centrosinistra veneto avesse avuto il coraggio di candidare lei alla guida della Regione. Anche senza il senno del poi, fu un autogol clamoroso. Che pochi ricordano e che anzi è stato volutamente rimosso. Perché sulla paternità di questo errore oggi ancora si litiga tra ex popolari ed ex pidiessini. Forse ci saremmo risparmiati 15 anni di Galan, di turboforzismo e di leghismo. Il Veneto avrebbe imboccato un’altra strada. Ma a queste cose, come scriveva Longanesi, è meglio non pensare.