Vitaliano Trevisan è morto. Per chiunque ami la scrittura come atto di lucidità razionale, è una perdita enorme, e so di non esagerare. Un amico mi ha scritto: quando si cammina sul ciglio di un burrone, basta un passo per precipitare. Trevisan era abituato a camminare lungo i bordi, lo ha raccontato magnificamente in Works, senza dubbio il suo capolavoro, splendido esempio di autofiction. Quando faceva il lattoniere, uno dei suoi tanti lavori prima di essere scrittore (ma forse lo era già, lo era da sempre), doveva spesso camminare in precario equilibrio sui tetti dei capannoni. C’è un episodio, ricordo bene, che lo vede salvare un compagno di lavoro che sta per precipitare dall’impalcatura, lui lo afferra al volo con un gesto tanto istintivo quanto sicuro, evitando che si schianti al suolo. Non sappiamo come sia morto Trevisan, ma ho l’impressione che sia precipitato dentro quell’abisso che era abituato a scrutare, peccato non ci fosse nessuno vicino ad afferrarlo.
Pochi altri scrittori avevano una scrittura così affilata, così precisa, così avvolgente. Pochi erano altrettanto alieni da ogni forma di retorica, un odore che Trevisan era in grado di avvertire con sicurezza ovunque si nascondesse, come le merde dei cani tra le siepi delle aree verdi che i decespugliatori fanno schizzare ovunque. Non per niente aveva affinato il suo stile sulle tre B: Thomas Bernhard, Samuel Beckett e Francis Bacon, due scrittori e un pittore. Al rifiuto della retorica, aggiungeva la capacità di smascherare qualsiasi ipocrisia, forse per questo era così poco amato, in particolare qui in Veneto. Detestava la letteratura edificante: edificante cioè cretina, altro vizio italico. Citando l’amato Piovene, lamentava il fatto che, in democrazia, vale il principio demagogico di puntare su prodotti intellettuali insipidi, vuoti, cretini o, che è lo stesso, edificanti.
Marginale, spigoloso, diretto al limite del brutale, anticonformistaper vocazione e sempre bastian contrario,antipatico a molti, era l’incubo dei convegni o delle tavole rotonde, con quei silenzi che seguivano alle domande di un sempre più imbarazzato interlocutore, riempiti, quando si poteva, di fumo di sigarette aspirate fino al filtro, con voluttà, prima di ottenere una laconica risposta, a volte un semplice sì, più spesso un no, quasi sempre un non credo.Preferiva leggere brani dei suoi libri, e lo faceva con quell’accento vicentino, non troppo marcato ma neppure nascosto, leggeva come un musicista interpreta uno spartito, e Trevisan era attentissimo al ritmo della scrittura.
Freddo, glaciale, mai sentimentale, ma neppure cinico, come altri gli rinfacciava. Quando ebbi l’occasione di intervistarlo, ero intimorito, temevo i suoi silenzi, invece trovai una persona disponibile, per quanto sulla difensiva, e potei constatare la distanza tra il personaggio Trevisan e l’uomo Trevisan. L’uomo era sicuramente indurito dalle difficili esperienze che lo avevano travagliato, gli occhi erano azzurro ghiaccio, ed era difficile capire dove si concentrasse il fuoco dello sguardo, ma non rifiutava il confronto, il dialogo, a patto che si evitasse il ricorso ai luoghi comuni, alle scorciatoie retoriche. Accendeva le sigarette con mani tremolanti, non prendeva più alcuni farmaci e questo era il risultato, mi spiegò, ma alla fine era meglio così, concluse. “Io sono uno scrittore proletario, mi disse, le mie origini quelle sono, non mi sento entrato in un’altra classe sociale. Rispetto alla maggioranza di scrittori, che sono di estrazione borghese, è pur sempre una piccola differenza, non so quanto possa valere, ma è pur sempre una differenza. Di fatto, vedo le cose diversamente. Sai, un conto è se vai a fare il lattoniere per fare un reportage, per tre mesi, un conto se vai a fare il lattoniere e quello può essere il lavoro per tutta la tua vita – e un po’ mi dispiace non aver continuato – e vivi semplicemente quella situazione.” Abbiamo mangiato poi insieme, mi ha suggerito le trote del torrente che passa vicino a Crespadoro, dove abitava. Lui, se ricordo bene, si mangiò una braciola con il purè.
Sappiamo che stava scrivendo un libro che aveva a che fare con la Nigeria, non sappiamo a che punto fosse realmente e neppure di cosa parlasse di preciso. Sicuramente delle puttane nigeriane, che lui conosceva e di cui apprezzava l’onestà intellettuale, sicuramente più specchiata di tanti nostri “intellettuali”. In mezzo a una pletora di scriventi, lui era uno scrittore vero e raro, attentissimo alle sfumature della lingua, ai vizi e sfasature del parlato, verrebbe da dire. Mirava alla scrittura vera, assoluta, come i suoi amati Maestri. “Per arrivarci, mi disse, è necessario tornare prima di tutto alla lingua.” E la lingua era tutt’uno con un luogo, forse per questo era tornato ad abitare in un paese sperduto tra le montagne del vicentino, vicino a un fiume. Non il Piave di Parise, più piccolo, ma con lo stesso carattere: lunghi periodi di secca e piene inarrestabili. “Il suo letto, le sue sponde, sono l’unico luogo in cui la natura comanda, dove è ancora possibile sentirla ‘barbara e brutale’.” Da lì voleva ripartire, per farci capire meglio il contesto in cui ci troviamo a vivere e se non proprio a capire, “magari a interrogarci, a veder qualcosa che altrimenti non vedremmo.”