Mi è capitato di riflettere sulla recente scomparsa dello scrittore Vitaliano Trevisan, ma non solo della sua. C’è un sentimento rituale degli umani di fronte al più comune dei misteri: il morire. E una specie di sacro rispetto per i suicidi. Dopo l’accadimento imprevisto inizia un processo mirabile: ogni persona riceve la propria iperdose di stima, la valutazione o spesso la sopravvalutazione di una positività essenziale per le opere compiute in vita. Soccorre la testimonianza: chiunque abbia calcato il mondo qualcosa di buono ha pur combinato e se ne enumerano le pregevoli tracce. Già, da morti diveniamo tutti figure insostituibili, il più lazzarone come il più santo, il mediocre come il genio troverà un proprio compenso nel necrologio, magari soltanto in quello privato dei familiari, se ha pochi amici. Gli tocca per diritto anche quello degli avversari o persino dei nemici. Non si tratta di ipocrisia, o meglio, non solo di essa. Che bestie strane, siamo, noi razza umana! Sempre affascinati di più dall’assenza che non dalla presenza, dal passato che non dal presente. La rarità soppesata per sottrazione. Ci capita non solo di fronte al mistero della morte: banalmente, per fare un esempio meno cupo, magari viviamo in modo attutito le emozioni di una straordinaria vacanza, ma non scordiamo di immagazzinare migliaia di immagini sullo smartphone. Soprattutto da esse, soltanto quando siamo ritornati a casa, possiamo estrarre dalla nostra banca del cervello un tesoro di sensazioni rare, per aver vissuto esperienze anche emotive irripetibili e che, mentre accadevano, non eravamo abbastanza pronti a cogliere nella loro pienezza straordinaria. Il passato ritorna in una sintesi affascinante a scuoterci, a rappresentare il senso di una vita. Per una strana associazione di idee, di cui non so darmi bene conto, mi è tornato alla mente quel capolavoro assoluto che si trova al Peggy Guggenheim di Venezia: l’opera geniale di Magritte dal titolo L’Empire des lumières, cioè l’impero delle luci. Il titolo è spaesante, il paesaggio è al buio completo, malgrado un cielo diurno scintillante di luce ed un lampione acceso. È un ossimoro: oscuramente luminoso. La luce buia ci costringe a indagare sul mistero della nostra vita, a darne conto da un’altra prospettiva. Il necrologio o almeno il ricordo, forse, è il filo che tiene legato il palloncino stupendo, l’illusione di un’eternità possibile, il valore che ha ogni vita nella sua originale individualità, almeno come memoria, anche se presto sarà destinato comunque al suo destino di inconsistenza: l’elio si perde, o il palloncino scoppia e cessa la meraviglia. Tutto presto rifluisce nella normalità e dopo nell’oblio. In quest’esistenza compulsiva, competitiva, liquida e ordinaria, rimaniamo privi delle domande, di quelle fondamentali che ci farebbero cambiare davvero per instaurare un nuovo umanesimo. Ci accontentiamo di assommare piccole risposte, nel trascinarci quotidiano. Ci nutriamo di luoghi comuni e pregiudizi che ci aiutano a indirizzare questa nostra vita lobotomizzata, senza domande, fino al momento critico in cui qualcuno lascia il gioco e muore, magari suicidandosi: in quello spazio di coscienza c’è la nostra opportunità di salvezza, di comprensione, anche di una sorta di redenzione. A volte penso che gli uomini dovrebbero pensare ai propri simili come se fossero appena morti: scemerebbe un poco l’ostilità diffidente che li contrappone? Per un gioco sono andato su internet e ho constatato sulle librerie on line che la raccolta Works, considerato il capolavoro di Trevisan, è dato per esaurito e in ristampa. Potere della luce buia. Molti hanno scoperto la sua grandezza, per la potenza spiazzante del gesto estremo. Ora si spendono le parole di commiato, e aggiungo giustamente, a ricavare un succo prezioso dalla vicenda umana di un notevole artista dal cognome venetissimo e poco di ruolo, come di uno “della porta accanto”. Ma io lo ricordo quando alle presentazioni dei suoi libri rispondeva alle domande degli intervistatori, imbarazzati, con dei semplici monosillabi. Quando era considerato uno strano personaggio, o comunque scorbutico, con quei suoi occhi ghiacciati e l’antiretorica che sfilava, soppesandola, come sigarette dal pacchetto. Coi suoi mestieri operai e il mito di Thomas Bernhard che pareva quasi un tarlo, un’infatuazione da neofita. Con le sue idee che parevano forgiate su un pessimismo quasi cosmico, una diffidenza al limite quasi patologico verso il genere umano che poteva procurare fastidio in chi ogni tanto preferisce vedere il bicchiere mezzo pieno. Allora il tipo umano, “il mostro” prevaleva sullo scrittore. Ricordo che Giulio Mozzi, da quel talent scout letterario che è, invece ce ne parlava già, oltre vent’anni fa, come di uno dei più grandi scrittori italiani contemporanei. Ungaretti diceva che la morte si sconta vivendo. Un’altra delle sue sagge constatazioni che restituisce alla morte una luce equilibrante. Trevisan ha patito la vita. Ci rimane il patrimonio della sua scrittura: dimentichiamo la biografia, come è necessario fare per i veri artisti, la cui voce parla attraverso le opere. La vicenda umana di ognuno di loro rimanga un fatto privato a cui ognuno ha diritto, anche e soprattutto di fronte alle sue scelte estreme: non si tratta mai di un folle espediente per la notorietà, semmai è l’ultimo atto di una tragedia dell’incompletezza che a volte assale e che nemmeno l’amore travolgente per la scrittura può compensare.