Chiedo scusa ai “medium” di professione se, in virtù di una qualche frequentazione acquisita lavorando nel mondo dei “media”, mi permetto di evocare dall’aldilà metafisico un gigante della cultura come Umberto Eco. A lui, sopraffino semiologo e filosofo, chiedo con discrezione una replica del meraviglioso discorso che tenne all’Onu il 21 ottobre 2013, dal titolo “Contro la perdita della memoria”, dove provò a spiegare all’umanità il “perché la storia è maestra di vita”. Dopo aver citato – a mo’ di esempio delle conseguenze a volte nefaste derivanti da una inadeguata documentazione – due asini patentati della materia, come Hitler per l’attacco nazista all’Unione Sovietica nel 1941,e Bush il Giovane per l’invasione americana dell’Afghanistan nel 2001,il grande intellettuale spiegava: “Il problema che entra in gioco è che nessuna civiltà (come sistema di idee scientifiche e artistiche, miti, religioni, valori e abitudini quotidiane) può sussistere e sopravvivere senza una memoria collettiva. (…) E quando un qualche atto di censura spazza via una parte della memoria di una società, questa società attraversa una crisi di identità”.
Se la evoco, professor Eco, è perché ci approssimiamo al 10 febbraio, “Giorno del ricordo”. Ricordo pubblico, istituzionale, “delle foibe, dell’esodo degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa questione del confine orientale”. Una immane tragedia rimasta sepolta per decenni tra silenzi diplomatici e omissioni consapevoli. Quello che le posso dire da quaggiù (ma lei lo avrà già ampiamente constatato da lassù) è che non si riesce proprio a ragionare in Italia di una “memoria collettiva” che nasca da una “storia condivisa”. Non uso volutamente l’espressione molto in voga di “memoria condivisa”, in quanto la ritengo una formula vuota, una forma di violenza psicologica, nell’ineliminabile soggettività del ricordo di determinati fatti o periodi drammatici della storia.
Si continua, purtroppo, da diciassette anni in qua, fra alti e bassi, a interpretare questa ricorrenza come un feroce derby calcistico all’ultimo pallone, come un palio di Siena sfrenato e scorretto, dove a vincere di volta in volta è il più forte a urlare, scalciare, zittire gli avversari. La parzialità, intesa come convinta asserzione delle proprie e solo delle proprie ragioni, domina sovrana, minimamente scalfita da pur lodevoli eccezioni. E questo, nonostante il varo quasi all’unanimità (vi si opposero solo alcuni parlamentari di estrema sinistra), della legge 92 del 2004. Un provvedimento, voluto dal governo Berlusconi dell’epoca, che per l’appunto, istituendo il Giorno del Ricordo, doveva segnare l’inizio della sospirata riconciliazione anche culturale fra destra e sinistra, tra antifascismo e post-fascismo, in nome del comune riconoscersi nei valori della Costituzione repubblicana. Furono Luciano Violante e Gianfranco Fini, nel 1998 al teatro Verdi di Trieste, a porre la prima pietra di un dialogo intessuto di reciproche (nel senso delle rispettive aree politiche di provenienza) ammissioni di responsabilità e limiti. Responsabilità del “movimento comunista” per le stragi delle foibe, dove i partigiani titini massacrarono migliaia di italiani, e del “movimento fascista” per gli orrori della Risiera di San Sabba, dove i nazisti e i loro alleati repubblichini internarono e eliminarono nei forni migliaia di oppositori. I limiti erano quelli della lettura e comprensione dei fatti, particolarmente complessi nelle aree di confine.
Ma non andiamo troppo lontano. La “condivisione”, della memoria o della storia, resta una chimera. Un appello che più capi dello Stato, da Ciampi a Napolitanoa Mattarella, hanno levato periodicamente per tentare di placare le risse da cortile ideologico scoppiate con inesorabile puntualità. Anche quest’anno, come nel 2021, al centro delle polemiche, è lo storico Eric Gobetti e il suo dissacrante libro “E allora le foibe?”, nel quale l’autore sostiene che il Giorno del Ricordo sia diventato una “data memoriale fascista”, una ricorrenza fatta propria da “propagandisti politici” che hanno conquistato il “monopolio delle celebrazioni”, insomma una mistificazione. Un’operazione di revisionismo storico che riabilita il fascismo. Sulla stessa linea, e parimenti subissato da reazioni indignate, lo storico dell’arte e polemista di successo Tomaso Montanari. Tesi spicce e molto parziali, carenti di approfondimenti e distinguo, capaci di inficiare anche quel poco di accettabilità che pur contenevano (il ricordo di “altre” tragedie contestuali).
Entrambi, Gobetti e Montanari, vengono tacciati di “negazionismo” o “giustificazionismo” delle foibe, di minimizzazione del numero delle vittime e di superficiale valutazione dell’esodo dei trecentomila italiani partiti (con la forza o volontariamente, a seconda dei punti di vista) dopo il 1945 dalla Jugoslavia comunista. Schematizzando all’estremo, nella ormai ricorrente contesa ideologica, il centrodestra urla più forte, convince e vince, la sinistra si sgola al vento dalle sue riserve indiane, il centrosinistra per lo più tace o cerca un imbarazzato equilibrio richiamando il concetto di “più complessa questione del confine orientale” enunciato dalla stessa legge. Che rimanda, per chi lo sa interpretare, alle responsabilità del fascismo durante il ventennio e soprattutto ai crimini di guerra italiani in Jugoslavia fra il 1941 e il 43.La storia andrebbe letta, capita e spiegata in tutti i suoi risvolti e capitoli, partendo almeno dalla Grande Guerra in poi. Italiani e slavi hanno entrambi le loro colpe e le loro ragioni, diritti violati e morti innocenti, carnefici senza scrupoli e eroi del bene. E tuttavia, la pietà per le vittime insepolte e il rispetto del dolore dei nostri esuli giuliano-dalmati, che hanno perso affetti e radici, andrebbero sempre salvaguardati.