Dal punto di vista geologico le foibe sono un aspetto tipico del paesaggio carsico e indicano fenditure, profonde anche molte decine di metri, che si aprono sul fondo di una dolina o di una depressione del terreno, scavate nella roccia calcarea: in queste voragini, alla fine della Seconda guerra mondiale vennero gettati i cadaveri di migliaia di cittadini italiani eliminati dall’esercito di liberazione jugoslavo del maresciallo Josiph Broz “Tito”. Nel marzo-giugno 1945 quando le forze partigiane titoiste occuparono Trieste prima dell’arrivo degli anglo-americani e imposero su tutto il territorio la propria autorità, si scatenò una repressione brutale nella quale risentimenti nazionali nei confronti degli italiani si mescolavano ad una precisa volontà politica di epurazione. Tutto nasceva dal progetto politico di Tito ed Evard Kardelj, concepito fin dalla fine del 1943, in base al quale le trattative al tavolo della pace avrebbero dovuto riconoscere la sovranità di Belgrado sul territorio giuliano. Secondo la versione ufficiale jugoslava l’eliminazione fisica riguardò solo esponenti fascisti responsabili di crimini di guerra ma di fatto la repressione colpì indiscriminatamente coloro che erano contrari all’annessione, indipendentemente dalle loro corresponsabilità con il passato regime e molto spesso anche coloro che ne erano stati oppositori. Nel maggio del 1945 mentre nella maggior parte dell’Italia del Nord la guerra era praticamente finita, al confine nordorientale si vivevano giornate drammatiche fatte di coprifuoco e porte sprangate come se fosse iniziata un’altra guerra. Le formazioni partigiane jugoslave occuparono tutti gli edifici pubblici e ovunque comparvero le bandiere con la stella rossa e la scritta TRST JE NAS (Trieste è nostra). “E’ la guerra che si trascina dentro la pace, carica di minacce oscure e di violenze nascoste: scompaiono fascisti di basso profilo, una manovalanza di delatori e di responsabili veri o presunti di atrocità che, a differenza dei gerarchi più in vista, non hanno saputo fuggire per tempo; scompaiono carabinieri e finanzieri sorpresi in divisa, scompaiono funzionari di banca e di agenzie assicurative, insegnanti, avvocati, commercianti; scompaiono cittadini qualunque. OZNA, la sigla della polizia politica jugoslava, comincia a diventare un termine sinistramente familiare che ricorre di bocca in bocca.” scrive lo storico Gianni Oliva. L’esecuzione sommaria e l’infoibamento sono il destino di una parte degli arrestati che a piccoli gruppi, legati tra loro con il filo di ferro, vengono portati dal carcere fino all’orlo degli inghiottitoi carsici e scaraventati nel baratro con una raffica: qualcuno cade ancora vivo trascinato dai corpi dei compagni e si sfracella sulle rocce. Basovizza, Opicina, Prosecco, Volci, Cruscevizza, Aurisina, Ternovizza: le località del Carso dove si aprono le voragini delle foibe sono altrettante tappe di morte di un tragico crescendo che nelle settimane si maggio procede a ritmi serrati dopo processi sommari. Va detto che la maggior parte degli arrestati non viene fucilata sul posto e gettata nelle foibe ma trasferita in campi di prigionia in Slovenia, Croazia e anche in Serbia attraverso viaggi terribili, parte a piedi e parte in convogli ferroviari stipati all’inverosimile, sottoposti a continue violenze da parte dei soldati di scorta. Nei campi di concentramento le condizioni sono al limite della sopravvivenza. I detenuti, senza nessuna assistenza medica, sono costretti a lavori pesanti, nutriti con mezza gavetta al giorno di acqua tiepida con crusca e farina, soggetti in qualsiasi momento a punizioni corporali pesantissime. “Chi faceva qualcosa che non andava veniva battuto con il frustino, poi gli veniva fatta la punizione della “parete”. Scalzo, con i piedi nudi, il disgraziato doveva stare sulla posizione di attenti e fissare il muro con la testa alta guardando sempre lo stesso punto. Sono stato così tredici ore e come mi muovevo erano botte” testimoniò alla Commissione di inchiesta Antonio Strazzullo, un superstite. Per chi tenta la fuga poi la fucilazione è immediata. La mortalità arriva a 6-7 persone al giorno per dissenteria, tifo, tubercolosi o sfinimento. Alla tragica situazione dei detenuti va aggiunta l’ansia dei familiari rimasti a casa, senza notizie dei propri cari che, nella maggior parte dei casi, non rivedranno mai più. “E’ il tratto di una stagione di violenza breve e brutale, dove gli uomini del nuovo potere jugoslavo agiscono sotto la duplice spinta di fare presto e di non far saper ciò che sta realmente accadendo” scrive ancora Oliva. Fare il bilancio finale della repressione risulta piuttosto complesso e comporta numeri calcolati per approssimazione in una somma che spesso non distingue tra civili, soldati e combattenti partigiani. I primi elenchi vennero redatti dalle truppe di occupazione alleate: nell’aprile del 1947 il Displaced Person Branch del Governo Militare Alleato (GMA) di Trieste denunciava la scomparsa di 1.492 persone a Trieste e 1.100 a Gorizia senza però fornire dati per la zona istriana. Nel 1989, dopo decenni di interviste e ricerche, uscì il poderoso lavoro del Centro Studi Adriatici che aveva accuratamente raccolto le segnalazioni delle associazioni di esuli giuliano-dalmati. L’Albo d’Oro fornisce queste cifre: 994 salme esumate da foibe, pozzi minerari e fosse comuni, 326 vittime accertate ma non recuperate, 5.643 vittime presunte sulla base di segnalazioni locali o di altre fonti (di queste almeno 3.500 a Basovizza e nella foiba 149 di Opicina), 3.174 vittime nei campi di concentramento e di lavoro jugoslavi per un totale di 10.137 persone. A questa cifra vanno aggiunte le vittime di ben trentasette tra foibe e cave di bauxite per le quali non è stato possibile alcun accertamento, pur con la certezza che furono teatro di altri massacri. Ma perché solo in questa zona d’Italia si verificò un fenomeno di così ampie proporzioni e dagli esiti così drammatici? “Per tentare di comprendere (che non vuol dire giustificare) – scrive Oliva – occorre guardare alle vicende di una terra passata dal dominio asburgico all’annessione dell’Italia, e da lì coinvolta nella politica del regime fascista: l’italianizzazione forzata delle minoranze slave durante il Ventennio, la guerra di conquista della Jugoslavia del 1941, l’occupazione militare della Slovenia meridionale e della Dalmazia, l’armistizio dell’8 settembre, la dominazione tedesca, la lotta di liberazione fino alla primavera 1945.” Resta il fatto che nel dopoguerra si continuò per decenni, se non a negare, quanto meno a relegare nel dimenticatoio della storia una realtà che costò sofferenze inenarrabili a migliaia di nostri connazionali: perché? La ricerca storiografica ha identificato tra i motivi principali i contrasti all’interno del movimento resistenziale italiano, soprattutto le gravi ambiguità tenute da Togliatti e dal gruppo dirigente del Partito Comunista Italiano sulla posizione da prendere verso un paese ideologicamente schierato dalla stessa parte. Inoltre, per il governo italiano di allora, la questione della Venezia Giulia rappresentava un argomento scomodo perché ne rivelava la debolezza sia nei confronti delle rivendicazioni territoriali jugoslave, sia nei confronti degli anglo-americani che continuarono ad amministrare la zona A del Territorio Libero di Trieste fino al 1954.
“In questo quadro, reso più drammatico dall’esodo istriano e dalmata e dal senso di sconfitta veicolato da centinaia di migliaia di profughi costretti ad abbandonare le loro case e le loro attività, il “silenzio storico” si presenta come la risposta più facile e immediata: non parlare di quello che è accaduto nella primavera del 1945 è indispensabile per non parlare del trattato di pace e della diminuzione della sovranità nazionale. La chiarezza sulle foibe viene così sacrificata all’opportunità politica di rimuovere il problema triestino e istriano.” conclude Oliva.
La Giornata del Ricordo del 10 febbraio (data della firma dei trattati di pace di Parigi del 1947), istituita dal 2004 per ricordare le vittime di questa tragedia, ha reso tardiva e parziale giustizia ad un fenomeno storico per troppo tempo rimosso, ricollocandolo finalmente in quella memoria collettiva che costituisce la base dell’identità nazionale di un paese.