Non se ne parla molto, perché in Veneto molti sono convinti che queste cose è bene che restino sotto silenzio. Ma forse, proprio per questo, è bene parlarne. Lo scorso 26 gennaio la seconda sezione penale della Corte d’appello di Venezia ha confermato in sostanza la sentenza di primo grado del novembre 2020 e quindi che per quasi vent’anni il Comune di Eraclea è stato in mano alla mafia, e più precisamente ai camorristi di Casal di Principe guidati da Luciano Donadio e Raffaele Buonanno. L’ex sindaco Graziano Teso è stato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa per aver favorito con la sua amministrazione l’espansione dei clan nel Veneto Orientale. L’indagine, partita nel febbraio del 2019 e condotta dal pubblico ministero Roberto Terzo, aveva coinvolto un centinaio di persone. Una ventina di loro hanno scelto il rito abbreviato e sono stati oggetto di questa sentenza, mentre i capi della cosca sono sotto processo con rito ordinario che si concluderà verso la fine di quest’anno. L’esito, a questo, dopo la conferma dell’impianto accusatorio, sembra abbastanza prevedibile.
Ma come è stato possibile tutto questo? Come è potuto accadere che organizzazioni criminali come la camorra si siano radicate in maniera così profonda nel tessuto economico del Veneto? In realtà, se uno s’informa un po’, e ad esempio legge le relazioni semestrali al Parlamento sull’attività svolta dalla Direzione investigativa antimafia (sono pubbliche e sono in rete), sa bene che questo fenomeno non solo non è nuovo, ma è ben presente in molti contesti del Nord, in particolare in Emilia, Lombardia e Veneto. E per farsi un’idea di come funziona questo sistema, è sufficiente ascoltare proprio la voce del magistrato Roberto Terzo, che in un convegno che si è tenuto a Vicenza una decina di giorni fa, ha riassunto in maniera magistrale i contorni di un fenomeno che purtroppo per molti veneti costituisce ancora un tabù:
“A Palermo, la presenza mafiosa fino agli anni ’90 era forte e temibile. Se si apriva un negozio, era certo che sarebbe arrivata la richiesta. Se non si rispondeva la prima volta, arrivava il Bostik alla serratura; la seconda volta saltava la saracinesca. Era difficile avere fiducia nelle istituzioni. Poi lo Stato ha dimostrato di saper fermare questi fenomeni. Lì la mafia aveva il suo peso, ma qui è diverso. Qui le mafie non hanno mai controllato il territorio e non hanno mai imposto le loro imprese, né hanno mai chiesto il pizzo. Verrebbero arrestati dopo poco. Perché, quindi, continuiamo a scoprire nuovi gruppi criminali? La mafia non si è infiltrata nel Veneto. Qui l’abbiamo chiamata noi. Non ha sfondato la porta: l’ha trovata aperta. Ci sono spezzoni deviati e patologici dell’imprenditoria a cui la mafia ha prestato servizi e denaro. Prestano soldi a vagonate con interessi del 10 per cento al mese. Così, come una ragnatela, si sono allargati. Non succede ogni giorno, ma soprattutto quando c’era una crisi finanziaria grossa come quella del 2008. Un altro servizio della mafia, tra i più diffusi, è la riscossione crediti. L’ultimo servizio arriva quando un imprenditore è sul punto di fallire. Le mafie forniscono un prestanome che fallisce al posto dell’imprenditore. Lui, intanto, con una nuova società lavorerà per due o tre anni senza pagare le tasse usando l’appoggio del gruppo mafioso. L’imprenditore onesto è danneggiato. Non basta la repressione, bisogna uscire dalla cultura mafiosa di qualche furbetto veneto” (“Il Giornale di Vicenza”, 6 febbraio 2022).