In un articolo sul «Corriere della Sera» del 18 ottobre 1975, all’indomani dell’efferato “delitto del Circeo”, Pier Paolo Pasolini scriveva: «Bisogna essere progressisti in un altro modo; inventare una nuova maniera di essere liberi, soprattutto nel giudicare, appunto, chi ha scelto la fine della pietà.» Tra i principali responsabili della «morte della pietà» individuava la televisione che al contempo aveva inaugurato «l’era dell’edonè»: «Era in cui dei giovani insieme presuntuosi e frustrati a causa della stupidità e insieme dell’irraggiungibilità dei modelli proposti loro dalla scuola e dalla televisione, tendono inarrestabilmente ad essere o aggressivi fino alla delinquenza o passivi fino alla infelicità (che non è una colpa minore).»

Non era nuovo l’interesse di Pasolini per la televisione: nel 1958, quando, in Italia, la Tv era attiva da appena quattro anni, Pasolini in un’intervista apparsa su “Vie Nuove” del 20 dicembre, focalizzava l’attenzione sul nuovo “medium di massa”, inserendolo nel fenomeno generale del neocapitalismo, senza però usare i toni apocalittici che caratterizzeranno i successivi interventi. Sarà solo a partire dalla metà degli anni ’60 che Pasolini individuerà nella televisione il cavallo di Troia che favorisce il trionfo del neocapitalismo e dell’omologazione culturale. In un intervento del 1966 dal titolo “Contro la televisione”, rimasto inedito e ora compreso nel Meridiano dedicato ai saggi sulla società, prendendo spunto dalla messa in onda del Francesco della Cavani, scrive: «Che cosa vuol coprire la televisione? Vuol coprire la vergogna di essere l’espressione concreta attraverso cui si manifesta lo Stato piccolo-borghese italiano. Ossia di essere la depositaria di ogni volgarità, e dell’odio per la realtà…

Il sacro è perciò completamente bandito. Perché il sacro, esso sì, e soltanto esso, scandalizzerebbe veramente le varie decine di milioni di piccolo-borghesi che tutte le sere si confermano nella stupida “idea di sé” davanti al video… La televisione emana da sé qualcosa di spaventoso. Qualcosa di peggio del terrore che doveva dare, in altri secoli, solo l’idea dei tribunali speciali dell’Inquisizione. C’è nel profondo della cosiddetta “Tv” qualcosa di simile appunto allo spirito dell’Inquisizione:… può passare solo chi è imbecille, ipocrita, capace di dire frasi e parole che sono puro suono.» E poi continua: «L’importante è una cosa sola: che non trapeli nulla mai di men che rassicurante. La televisione, della vita pubblica, delle vicende politiche e della elaborazione delle idee, deve… operare secondo una selettività di scelta e di norme linguistiche, che assicuri innanzitutto che tutto che “tutto va bene”, ed è fatto per il bene.»

Sono presenti tutti gli elementi della polemica nei confronti della televisione che nel corso degli anni ’70 Pasolini radicalizzerà nelle pagine degli Scritti corsari e delle Lettere luterane. In un famoso intervento comparso sul “Mondo” dell’11 luglio 1974, chiarisce quale sia il potere della Tv: «Mai un “modello di vita” ha potuto essere propagandato con tanta efficacia che attraverso la televisione. Il tipo di uomo o di donna che conta, che è moderno, che è da imitare e da realizzare, non è descritto o decantato: è rappresentato!»

Secondo Pasolini, dunque, il neocapitalismo, attraverso la televisione e il suo «linguaggio pragmatico fatto di cose», portava avanti l’opera di omologazione e desacralizzazione del mondo: questo era il vero scandalo che scatenava il suo «odio teologico». La cultura consumistica del potere neocapitalista, considerato il vero fascismo, peggiore di quello “storico”, cancellava le culture popolari che erano più che millenaria nel giro di pochi anni.

Il paragone tra i tribunali dell’Inquisizione e la tv mi ha fatto tornare in mente l’episodio della “Leggenda del Grande Inquisitore”, in cui Ivan, uno dei fratelli Karamazov dell’omonimo romanzo di Dostoevskij, racconta ad Aljoscia (il fratello più giovane) una storia: Cristo ritorna sulla terra, in Spagna più precisamente, alla fine del ‘500, durante i grandi roghi di eretici inscenati dalla Santa Inquisizione ma viene prontamente catturato e portato davanti al Grande Inquisitore. Questi, dopo averlo riconosciuto, lo accusa di aver rinunciato all’unica via possibile per evitare la ribellione degli uomini, questi “ribelli infelici”, cioè di aver rifiutato quello che il demonio gli aveva proposto nel deserto: «Ci sono tre forze, soltanto tre forze sulla terra, capaci di vincere e di catturare per sempre la coscienza di questi impotenti ribelli [gli uomini], per la loro stessa felicità: e queste forze sono il miracolo, il mistero e l’autorità.» Il Grande Inquisitore incalza Cristo: «Noi non siamo con Te, ma con lui… noi abbiam preso da lui ciò che tu rifiutasti sdegnosamente.» Senza addentrarci ulteriormente in questo capitolo grandioso della letteratura, verifichiamo – con un grano di ironia – se e in che modo la televisione si sia impossessata di questi tre elementi chiave per il controllo dell’uomo che a suo tempo l’Inquisizione arrogava a sé.

Il miracolo: avviene quotidianamente sotto i nostri occhi di spettatori, in un gran numero di programmi, dove assistiamo alla moltiplicazione dei pani e dei pesci, dove anche gli idioti parlano e sembrano avere qualcosa di intelligente da dire, dove i nani diventano giganti e gli imbecilli santi, dove coloro che erano creduti morti resuscitano, e molto altro (il lettore continui da solo).

L’autorità: Pasolini disse, in un’intervista con Enzo Biagi, che parlare in Tv era sempre un parlare “ex cathedra”, conferiva un’autorità a chiunque apparisse nel video: filosofi ballerine virologi imprenditrici generali e imbianchini con la pennellessa hanno facoltà di pontificare in qualità di nuovi oracoli. Inoltre, l’autorità della tv garantisce a chi appare la conferma della propria esistenza (altrimenti dubbia).

Ma il mistero: in cosa consiste? Il mistero per eccellenza è la morte: fateci caso, negli ospedali, nei sanatori, nelle case di riposo per anziani, nelle stanze dei malati terminali la tv è sempre accesa e si offre agli sguardi opachi dei morenti. Cosa vedono gli occhi dei malati e degli anziani nelle immagini televisive che scorrono per ore e ore senza soluzione di continuità e che li accompagnano verso il paese sconosciuto da cui nessun viaggiatore è mai tornato? Quali misteri si sciolgono mentre si assiste al blob delle immagini che scorrono senza soluzione di continuità?

Nei villaggi del Benin, dove ancora è viva la religione voodoo, gli anziani quando sentono che la loro ora è giunta, spostano il loro giaciglio nella stanza degli antenati, dove riposano i morti della famiglia, per essere loro più vicini e sentirsi pronti al trapasso. La tv-psicopompo sempre accesa svolge una funzione simile e facilita il trapasso adempiendo al suo ambiguo compito di traghettatore infernale.

Chi aveva intuito una deriva “religiosa” della televisione è stata la letteratura di fantascienza: mi riferisco non tanto alla Tv-placebo di Fahreneit 451 di Ray Bradbury, quanto piuttosto al Philiph Dick di Ma gli androidi sognano pecore elettriche?. In questa sua allarmante distopia, scritta nel 1968, Dick immagina, «in un mondo oppresso dal fetore della morte», che la televisione riempia la solitudine degli umani rimasti sulla terra (sono i sopravvissuti a una guerra atomica che non hanno potuto emigrare nelle colonie extra mondo). [Elon Musk non era ancora nato e Vladimir Putin aveva da poco terminato le medie, ndr].

La Tv comunemente intesa è composta da un unico canale, in cui va in onda un infinito talk-show, giorno e notte, “Buster Friendly and His Friendly Friends”, un mix di Bruno Vespa e Fabio Fazio (ma potete metterci i nomi che preferite), il cui conduttore si scoprirà essere un replicante. A questo continuum televisivo, si affianca l’esperienza religiosa delle cosiddette “scatole empatiche”, provviste di uno schermo e di un paio di manopole attraverso le quali si entra in contatto con tutti coloro che sono connessi in quel momento, condividendo le sofferenze di Wilbur Mercer, fondatore e martire di questa religione catodica. Il suo “calvario“ si svolge sulle pendici di un Golgota (che si svelerà essere di cartapesta), e giunti alla sommità, si precipita in una tomba buia e piena di cadaveri per poi “risorgere” grazie all’intervento dello stesso Mercer.

Un’esperienza che si basa sull’empatia, cioè sulla fusione spirituale di uomini e donne in una singola entità, gestita dalla voce di Mercer. Per usare le parole della moglie depressa di Rick Deckard, il cacciatore di replicanti: «Oggi mi sono attaccata qualche secondo alle maniglie della scatola e la mia depressione è passata per un po’… E ricordo che ho pensato a quanto stiamo bene, a quanto stiamo davvero meglio, quando siamo con Mercer… Ho sentito tutti gli altri, in tutto il mondo, che si erano fusi con lui nello stesso momento.»

Allo stato attuale dei fatti, la nostra televisione non ha ancora separato le due funzioni, per quanto in grado di offrire un’esperienza non dissimile da quella delle “scatole empatiche” di Dick, fornendo una sorta di anestetico contro la paura della morte. E come poco importa che Mercer sia un attore ubriacone da quattro soldi e gli sfondi del suo Golgota provengano da una vecchia sit-com, così anche poco importa alla nostra Tv-psicopompo che si guardi un reality o si ascolti il cicaleccio dei talk-show, poco importa il reale contenuto dei programmi ai telespettatori, poco importa che gli specialisti si avvicendino a seconda dell’emergenza all’ordine del giorno: più importante è la sensazione di comunione con un magma emotivo indifferenziato, che avvia verso un prosaico nirvana.

Neppure Pasolini poteva immaginare che quel sacro che la Tv aveva contribuito a cancellare, sarebbe stato recuperato, in forme surrettizie, degradate e in ultima istanza parodiche proprio dalla televisione stessa. In un epoca in cui è tramontato qualsiasi senso del sacro, questo è il massimo dell’esperienza religiosa che ci possa toccare. E che forse ci meritiamo.

Nicola De Cilia
nato a Treviso, insegna presso il Liceo Giuseppe Berto di Mogliano Veneto. Collaboratore de «Lo Straniero», scrive attualmente su «Gli asini», riviste entrambe dirette da Goffredo Fofi. È autore di un’inchiesta su educazione e rugby, Pedagogia della palla ovale (edizioni dell’asino, 2015) e del romanzo Uno scandalo bianco (Rubbettino, 2016). Ha inoltre curato un’antologia dedicata a Giovanni Comisso, Viaggi nell’Italia perduta (edizioni dell’asino, 2017), e due libri di Nico Naldini, Alfabeto degli amici (l’ancora del mediterraneo, 2004) e Come non ci si difende dai ricordi (Cargo, 2005). Nel 2018, ha pubblicato con Ronzani Editore, a cura di Maria Gregorio, la raccolta di saggi Saturnini, malinconici, un po’ deliranti. Incontri in terra veneta. Nel 2019 è uscito, sempre per Ronzani, Geografie di Comisso. Cronaca di un viaggio letterario, a cura di Maria Gregorio.

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