Durante le recenti celebrazioni del 25 Aprile la Resistenza italiana al nazifascismo è stata accostata (secondo alcuni impropriamente) a quella in corso del popolo ucraino contro l’invasione russa.
Non so e non voglio addentrarmi in sottili distinzioni o analogie su questo argomento anche se mi vien da dire che il diritto a combattere per la libertà dovrebbe essere accolto, come si usa dire oggi, “senza se e senza ma”.
Vorrei piuttosto ricordare quella che Alessandro Natta definì molto opportunamente “l’altra Resistenza”, cioè quella dei soldati italiani catturati nei giorni immediatamente successivi all’armistizio dell’8 settembre 1943, quando ufficiali e soldati vennero posti davanti alla scelta di continuare a combattere nelle file dell’esercito nazifascista oppure essere inviati in campi di detenzione in Germania. Solo il 10 per cento di loro accettò l’arruolamento.
Gli altri vennero considerati prigionieri di guerra (Kriegsgefangenen) ma già il 20 settembre Hitler cambiò la loro denominazione in Italienische Militärinternierte (IMI) che non prevedeva per loro le garanzie della Convenzioni di Ginevra del 1929. Dall’autunno del 1944 alla fine della guerra, vennero infine ridotti al rango di lavoratori civili per poter essere utilizzati come manodopera coatta. La resistenza al nazifascismo passò dunque anche dal coraggio di questi soldati che in massa rifiutarono di aderire al nascente esercito della repubblica di Salò pur non sapendo cosa avrebbe loro riservato il futuro.
Questa è la storia di uno di loro.
Si chiamava Vittorio, era nato a Treviso nel 1920 e alla data dell’armistizio si trovava di stanza come autista scelto in un aeroporto della Regia Aeronautica a Kalamàta, capoluogo della Messenia e seconda città del Peloponneso, in Grecia. Le lettere che Vittorio inviava alla famiglia allora residente a Mestre, (controllate, va sempre ricordato, dalla censura militare) narrano di un giovanotto di 23 anni in piena salute che si gode il sole greco (diventerò nero come un abissino) , scherza con i commilitoni e si stupisce come un bambino della incredibile quantità di frutta a disposizione nei dintorni del campo: fichi, fichi d’India, uva. Le sue lettere iniziano sempre con la frase “carissimi genitori e fratelli” e si concludono sempre con “mi raccomando scrivete”.
Questo rapporto con la famiglia resterà sempre strettissimo e l’angoscia che sicuramente viveva nel trovarsi in guerra lontano da casa viene mitigata dallo scambio di corrispondenza con i propri cari che gli rispondono sempre puntualmente. L’aeroporto di Kalamàta era condiviso a metà con gli alleati tedeschi che naturalmente, nei giorni successivi all’armistizio, non persero tempo ad arrestare immediatamente tutto il personale italiano. Vittorio provò a fuggire e grazie ad un permesso per l’acquisto di rifornimenti (da lui falsificato) raggiunse la vicina città da dove non fece più ritorno alla sua base.
Lui e i suoi commilitoni tentarono in qualche modo di provare a rientrare in Italia, in qualche modo contattarono perfino alcuni sedicenti partigiani greci ma il caos era totale, il rischio enorme e alla fine furono costretti a consegnarsi ai tedeschi confidando nella buona sorte. Da questo momento inizia la sua personale odissea di prigioniero di guerra, la stessa vissuta da suo padre nel 1917 quando venne catturato dagli austro-ungarici dopo Caporetto: due generazioni unite dallo stesso destino.
Dopo alcuni giorni nel centro di raccolta di Kalamàta, con moltissimi altri prigionieri Vittorio fu caricato su un carro merci e iniziò il lungo viaggio verso la Germania, un viaggio durissimo spesso interrotto dai bombardamenti alleati durante i quali il convoglio veniva lasciato fermo sui binari con il suo carico di esseri umani.
Dopo due settimane in giro per i Balcani la destinazione finale per Vittorio fu un sottocampo dello Stammlager XXII A situato nei pressi di Darmstadt in Assia.
Qui iniziò a lavorare in una fabbrica di munizioni nella cittadina di Arheilgen: il suo numero di prigioniero era 71635. Nelle lettere che comincia a inviare a casa per riallacciare l’indispensabile cordone ombelicale con la famiglia (la censura tedesca è ancora peggiore di quella militare italiana) Vittorio non può dire niente di negativo e anzi tenta di dare una parvenza di “normalità” alla sua situazione. Non parla (non può parlare) di fame ma ricorda in ogni occasione a genitori e fratelli di mandargli “qualcosa”, magari scatolame, anche se teme di pesare troppo sulla loro economia quotidiana (spero non vi sacrificherete troppo per me) soprattutto dopo il giugno del 1944 quando la famiglia viene sfollata a Martellago a causa dei bombardamenti.
Molti anni dopo racconterà che l’incarico più ambito nella baracca del campo era quello del tagliatore dell’unica forma di pane ricevuta perché aveva il diritto di tenere per sé le briciole. Chiede vestiario (qualche camicia vecchia, ma veramente vecchia, perché qui va sempre bene, per cambiarmi almeno una volta la settimana), chiede libri, chiede cibo ma soprattutto chiede notizie del suo mondo rimasto in Italia. Da quello che gli scrivono i suoi (sottoposto naturalmente a censura) intuisce che la situazione non è certo delle migliori ma sente il dovere (lui, prigioniero) di rincuorare la famiglia: “Mi immagino già come vi troverete a disagio e che sacrificio sarà per voi quando dovrete andare al lavoro. Cosa volete così é la guerra. Neanche io avrei immaginato di trovarmi in queste condizioni. Ma pazienza presto finirà. Via auguro ogni bene e mi raccomando scrivete.
Dalla fine del 1944 fino ai primi mesi del 1945 la situazione in Germania peggiora e i bombardamenti nell’aerea attorno a Darmstadt si intensificano tanto che spesso, racconterà, guardie e prigionieri sono costretti a rifugiarsi nei campi attorno da dove assistono alle apocalittiche incursioni alleate.
Vittorio viene liberato dagli americani nell’ aprile del 1945 e per qualche mese fraternizza con i soldati a stelle e strisce, giovanotti sani e forti provenienti dal Montana. Lui sano e forte non lo è più perché, oltre alla sottonutrizione, il campo di lavoro gli lascia in eredità la tubercolosi.
Rientra in Italia nell’agosto di quell’anno e per diversi mesi lavora come autista presso il comando inglese situato nell’odierna Villa Salus, sul Terraglio. Nonostante le numerose richieste non riuscirà mai ad ottenere la pensione di guerra perché non poteva provare (e come avrebbe potuto?) di aver contratto la malattia durante la prigionia!
Nel 1988 ritornò nei luoghi dove era stato detenuto, rimasti incredibilmente gli stessi compresa la fabbrica dove aveva passato quasi due anni a fare munizioni. Ritrovò anche lo stesso albergo “Al cigno Bianco” dove aveva passato le prime settimane da uomo libero e dove si era fatto fotografare con la divisa da soldato americano in mezzo ad altri ragazzi come lui che non lo consideravano più un nemico: una sorta di catarsi che poneva fine a un doloroso viaggio personale a cui l’assoluta dissennatezza della guerra fascista l’aveva costretto e alla quale aveva sacrificato parte della sua giovinezza.
Vittorio ci ha lasciato nel 2004 convinto di aver subito una grande ingiustizia.
Vittorio era mio padre.