Fin dalle prime pagine, per densità e struttura, il nuovo libro di Cinzia Scaffidi “Il profitto e la cura” mi ha subito ricondotto alle “Lezioni americane” di Italo Calvino. Non per il contenuto, naturalmente, ma per la similare opera ricostruttiva delle voci del passato – profetiche ma quasi sempre inascoltate! – sul tema della “sostenibilità”. Un recupero fatto di feconde interconnessioni che, oggi più che mai, sono all’ordine del giorno per poter dare inizio a una vera transizione ecologica.
Va detto in premessa che il libro si legge d’un fiato, è piacevolissimo nello stile, chiaro nell’esposizione, illuminante nei contenuti. Un libro, come osserva Luciana Castellina nella sua introduzione, da non leggere per capitoli separati, da affrontare “nella sua interezza, operazione del resto assai facile perché la scrittura di Cinzia Scaffidi è molto accattivante, con molte citazioni preziose e inconsuete”.
“Il profitto e la cura” è un mosaico che già nel titolo enuncia la sua proposizione, e cioè che alla base delle criticità che stiamo vivendo – dovute alla mancanza di cura verso la terra madre e specchio delle sofferenze di molta parte dell’umanità – ci sia la voracità del profitto, la patologia dell’accumulo per l’accumulo. Una rappresentazione che l’autrice realizza incollando con rigorosa creatività le tessere di questa dissennata evoluzione.
Dopo un’originale incursione nel mondo biblico del “paradiso terrestre”, preso a simbolo del nostro distacco dallo “stato di natura”, Cinzia Scaffidi si aggira fra i punti nodali di questa lunga storia: rievoca gli esiti nocivi di quella parte di scienza legata essenzialmente al profitto, prendendo ad esempio un manipolo di scienziati premiati addirittura col Nobel (Liebig e il suo approccio riduzionista, sviluppato poi da Bosh e Haber con i loro fertilizzanti di sintesi, Paul Muller con al seguito il suo DDT, l’italiano Giulio Natta e il tedesco Karl Waldemar Ziegler protagonisti della tecnologia dei polimeri, commercializzata a partire dagli anni Sessanta con il marchio Moplen); racconta con ritmo crescente le trasformazioni dell’uomo, dell’agricoltura, del lavoro, del modo di mangiare e di vivere la vita; rammenta come il patriarcato sia stato storicamente il fil rouge di questi progressivi ammanchi.
In questo percorso, Cinzia Scaffidi si fa accompagnare da un succoso grappolo di autorevoli voci: da Engels a Darwin, da Barry Commoner a Silvio Greco, da Albert Howard a Laura Conti, da Giorgio Caproni a Italo Calvino fino a Greta Thunberg, Carlo Petrini e Papa Francesco: un bell’intreccio fra scienza e letteratura.
Ciò che riaffiora dalle maglie di questo strenuo lavoro, sono i “fondamentali” per poter invertire la rotta e ritrovare il senso della nostra vita. S’impone, sotto questo profilo, l’urgenza di andare oltre il tempo “freccia” della tecnica e dell’agricoltura industriale per risintonizzarci con il tempo ciclico, all’origine della nostra identità; di ritrovare gli spazi della nostra esistenza, divorati da una mobilità che ha cancellato il senso di appartenenza e le radici paesaggistiche della memoria affettiva; di ripopolare gli sfondi formativi con un’educazione ecologica che sappia favorire una nuova alleanza fra i giovani e la natura; di superare l’alienazione costruendo modalità identitarie di lavoro e stili di vita comunitari, ritrovando i sapori della festa oltre la frigidità del profitto; di comprendere, infine, che questo processo di transizione ecologica (anche mentale) non potrà mai avverarsi senza l’apporto determinante della donna, vero presidio, antropologico e storico, della cura verso tutti noi e della terra madre.
Per queste ragioni, “Il profitto e la cura” va considerato come una bussola paradigmatica, fondamentale soprattutto per i protagonisti dell’educazione: perché a partire dai giacimenti culturali che quest’opera disvela si può intravvedere una nuova strada per il futuro, quella di un percorso neoumanistico, unico antidoto al dilagare di una tecnocrazia aggressiva, sterile, sempre più autoreferenziale.
Ma perché questo accada, conclude Cinzia Scaffidi, occorre fare come il Barone Rampante di Italo Calvino, “provare a ragionare adottando il punto di vista degli alberi, dei neri, dei poveri, dei pesci, dell’acqua, delle piante. Degli altri”.
Imperdibile.