Ufficialmente tutta Mogliano, dalla popolazione alla politica, si è schierata compatta contro il disgustoso e impattante progetto del parco fotovoltaico in Via Cavalleggeri. Ma quanti avrebbero fatto questa scelta se prima avessero posseduto qualche conoscenza in più?

Sono stato alla presentazione del fantasmagorico progetto di cui si parla da mesi. Mi interessava saperne di più su di esso, perché sono stato uno degli organizzatori della marcia del 24 marzo in cui circa duecento studenti hanno spostato dei finti pannelli fotovoltaici dal luogo in questione consegnandoli poi all’entrata del municipio, chiedendo alle istituzioni di rendere più conveniente e meno macchinoso mettere gli impianti nelle zone già cementificate. Purtroppo la politica non è intervenuta su queste famose aree già perse, e quindi ho ritenuto doveroso cercare di capire se almeno quel dato tipo di progetto avesse un senso o meno.

Oltre a coltivare biologico con mio padre, studio Scienze Ambientali a Ca’ Foscari e sono attivista climatico con FridaysForFuture: almeno sul tema ambientale ho imparato a cercarmi le informazioni nude e crude, a ricavare i dati grezzi, ad abbozzare dei bilanci carbonici, ecosistemici e così via, oltre che tenere l’occhio sempre sui report internazionali delle organizzazioni che quelle cose le fanno con decisamente maggiore professionalità.
E il risultato delle mie ricerche era che per il clima, per la biodiversità, per la salute dei cittadini, il parco fotovoltaico andava fatto, anche e specialmente se andava a sostituire una monocoltura per allevamento intensivo situata nei pressi di una strada trafficata.

Con la mia opinione in mente, sono andato alla presentazione del progetto per vedere se spuntavano altri dettagli interessanti o se qualche residente circostante, spaventato dall’eventualità di veder perdere valore a un proprio terreno confinante, riusciva a trovare un’obiezione tecnica da avanzare ai tre progettisti della SICET che venivano ad illustrare il lavoro fatto.
Purtroppo, di obiezioni tecniche non ne ho sentite molte. Ho sentito domande quasi fuori tema, ho udito insulti, ho assistito sostanzialmente a quella che è degenerata in una baruffa tra ultracinquantenni troppo orgogliosi per abbassare i toni o aspettare il proprio turno di parola.

Ero atterrito quasi quanto il povero giovane tecnico seduto sul palco in disparte: non tanto per il comportamento del sindaco (conoscendolo me lo aspettavo), non tanto per la generale baraonda (sono ancora fresco dalla classe del liceo), ma più che altro per lo spettacolo avvilente di vedere dei miei concittadini esporsi con forza su temi che dimostravano immediatamente di non conoscere.
D’accordo, i tre progettisti non erano decisamente degli umili pacieri né degli esperti di comunicazione, e il tecnico comunale che gestiva il dibattito aveva esplicitamente ammesso di non essere esperto in tale ruolo; ma la valanga di luoghi comuni e di puro “romanticismo” che trasudavano da gran parte degli interventi fatti da chi intendeva mostrare il proprio dissenso al progetto, mi ha fatto capire come la mancanza di una formazione scientifica di gran parte della società possa essere un pericolo per la società stessa, oltre che rovinare un dibattito che nel programma doveva essere esclusivamente tecnico e basato su dati concreti.

Nel seguente spazio voglio provare a sfatare alcuni miti evocati durante quell’irripetibile (si spera) 21 giugno sera: puoi ora scegliere se dare credito, sul tema ambientale, ad uno studente di scienze ambientali, oppure chiudere immediatamente l’articolo borbottando qualcosa sull’arroganza giovanile. Non mi offendo nel secondo caso, è un fatto statistico che né ecologi né giovani vengano ascoltati granché.
Al lettore la scelta.

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