È sempre e solo una questione di tempo. Di tempo, di marketing e di audience. La routine che segue a ogni evento importante, anche il più spaventoso e drammatico come la guerra in Ucraina, porta implacabilmente alla progressiva perdita di posizioni nella hit-parade delle notizie che contano. Lo vediamo in questi giorni, in cui il recente conflitto europeo non registra affatto un’attenuazione di bombardamenti e di ferocia, o una diminuzione delle sofferenze dei civili intrappolati nelle città prese di mira dall’avanzata russa. Si continua a combattere e a morire. Eppure, l’“appeal” dei fatti bellici riproposti quotidianamente, da oltre quattro mesi, perde forza, passo dopo passo, chilometro dopo chilometro, come un tornado che si placa e s’esaurisce con il passare dei giorni. Tuttavia, fosse solo una questione di tempo, di data di scadenza, di prevedibile ripetitività di fatti costantemente gravi, le volubili oscillazioni del borsino delle notizie manterrebbero una loro logica intrinseca, per quanto difficile da comprendere. E’, invece, quando le notizie “spariscono”, o meglio “non compaiono” affatto, pur in presenza di fatti significativi, che viene da porsi qualche domanda e cresce l’inquietudine. È questo il caso, incredibile, di Julian Assange.
Ecco il “fatto” più recente: il 17 giugno scorso, la ministra dell’Interno del Regno Unito, Priti Patel, ha autorizzato l’estradizione del giornalista australiano, cofondatore del sito WikiLeaks, detenuto dall’aprile del 2019 presso la Her Majesty Prison Belmarsh, dopo che l’Ecuador gli ha revocato l’asilo. Si tratta dell’ultimo tassello giuridico prima della consegna vera e propria di Assange agli Stati Uniti, dove deve scontare una condanna a 175 anni di reclusione per la pubblicazione di documenti segreti del governo americano. Un caso che fece enorme scalpore, dalle prime rivelazioni del 2007 fino a pochi anni orsono.
Chi ne ha parlato? Quanto se ne sono occupati gli organi di informazione più importanti? Una conta imbarazzante.
Di pochissimi giorni fa, il 23 giugno, la lettera aperta che Christine Assange ha scritto al mondo per richiamare l’attenzione sulla vicenda dimenticata del figlio. “Non sopporto che non si muova nulla di fronte a tanta ingiustizia”, leva il suo grido disperato e dignitoso la madre dell’uomo che la (presunta) più grande democrazia del pianeta e prima superpotenza militare vuole vedere marcire per sempre isolato in un super-penitenziario. La distruzione fisica e psicologica di Julian Assange, in sostanza, deve fungere da punizione esemplare per aver pubblicato notizie “sensibili”, vale a dire sconvolgenti e ignominiose sui metodi di tortura, i crimini di guerra, le violazioni dei diritti umani, gli obiettivi civili delle operazioni militari, lo spionaggio di politici stranieri, le responsabilità in disastri ambientali, ed altre inconfessabili amenità in cui la nazione di riferimento del democratico Occidente si è distinta, dopo la tragedia delle Torri Gemelle, in aree geostrategiche: dall’Iraq all’Afghanistan alla Siria, passando per Guantanamo, oltre che per più impalpabili vie cibernetiche.
Vi è “un dolore più grande”, scrive la signora Christine, di quello che segnò il parto del suo “bellissimo bambino” cinquant’anni orsono. Il “dolore incessante di essere la madre di un giornalista premiato, che ha avuto il coraggio di pubblicare la verità sui crimini governativi di alto livello e la corruzione”. Il “dolore di vedere mio figlio, che ha rischiato la vita per denunciare l’ingiustizia, incastrato e privato del diritto a un processo equo, ancora e ancora”. La “paura costante che la CIA possa realizzare i suoi piani per ucciderlo”. Nell’ultima udienza del processo di estradizione, il cinquantunenne Julian è stato colpito da un piccolo ictus “a causa dello stress cronico”, informa la madre, che osserva come “molte persone sono rimaste traumatizzate nel vedere una superpotenza vendicativa che usa le sue risorse illimitate per intimidire e distruggere un individuo indifeso”. “Per favore – scongiura in chiusura del suo appello virtuale – continuate ad alzare la voce ai vostri politici fino a quando non sentirete solo questo”.
A parte Amnesty International, che non smette di accendere i suoi fari nella notte accecata dell’indifferenza invocando di “annullare le accuse” contro l’uomo di WikiLeaks, l’unico personaggio di rilievo che abbia alzato la voce in favore di Julian è stato il Premio Nobel per la pace Adolfo Perez Esquivel. Il quale denuncia: “La grande potenza americana vuole controllare i destini del mondo, pretende l’impunità e minaccia la libertà di stampa. Da anni Julian Assange viene perseguitato. È preoccupante il silenzio degli organismi internazionali, come quello delle Nazioni Unite e del Parlamento europeo”. E conclude: “La condanna di Assange è anche un avvertimento per tutti quei giornalisti e mezzi di comunicazione indipendenti che vogliono raccontare la verità della vita dei popoli”.
Peccato che anche chi dovrebbe rappresentare il mondo dell’informazione, non sembri per nulla impressionato dall’inquietante vicenda di Julian Assange. In una iniziativa a Trento dell’8 maggio scorso, la Federazione Nazionale della Stampa e l’associazione Articolo 21 hanno giustamente sottolineato come la libertà di espressione sia gravemente minacciata nel mondo, ricordando che “in Russia i cronisti vengono condannati a quindici anni di carcere se scrivono la parola guerra. Così come accade in Bielorussia dove la legge che limita la libertà di stampa è basata sul modello di quella in Turchia e dell’Egitto che prevede il carcere a chi si è solo permesso di criticare il governo contestando il reato di attentato contro la sicurezza nazionale”. Giusto. Si potrebbe solo obiettare che viene facile la denuncia davanti a palesi violazioni della libertà di pensiero e di stampa operate da indiscutibili dittatori, con i quali facciamo (noi Paesi europei e occidentali) peraltro ottimi affari e imbarazzanti accordi politici sulla pelle dei migranti non di colore bianco piuttosto che su quella di popoli “reietti” come i curdi. Più difficile prendere posizione e ricordare violazioni altrettanto gravi, come il caso Assange testimonia, allorché a finire sul banco dell’accusa è chi della democrazia e della libertà in tutte le sue sfumature dovrebbe essere il paladino. Ma, in Italia, del gramo destino che attende Julian quasi nessuno sembra ricordarsene.