Da anni in Italia si attende una riforma della legge sulla cittadinanza che riconosca uguali diritti a tutti i bambini e ragazzi che sono italiani “di fatto”, ma non lo sono ancora per il nostro ordinamento. In questi giorni tiene banco la discussione sullo Ius Scholae, ovvero sulla proposta di legge che riconosce la cittadinanza italiana ai minorenni di origine straniera nati in Italia o arrivati prima del compimento dei 12 anni, che risiedano legalmente e che abbiano frequentato regolarmente almeno 5 anni di studio nel nostro Paese, in uno o più cicli scolastici. Infatti, secondo la normativa attualmente vigente, e ormai superata nei fatti (risale al 1992), solo coloro che hanno risieduto legalmente e senza interruzioni in Italia fino al raggiungimento della maggiore età possono diventare cittadini italiani, presentando la richiesta entro un anno dal compimento del diciottesimo compleanno. Come noto sono moltissimi i ragazzi di origine straniera che frequentano le nostre scuole. Nell’anno scolastico 2019/20 erano 877mila gli alunni con cittadinanza non italiana, quasi 20mila in più rispetto all’anno precedente: il 10,3% del totale degli iscritti nelle scuole italiane, poco più della metà concentrati nel primo ciclo di istruzione. E da diversi anni il numero degli studenti stranieri nati in Italia ha superato quello dei nati all’estero, raggiungendo il 65,4% degli alunni con cittadinanza non italiana. Tutti numeri e dati che provengono dal MIUR, non dal Ministero della Propaganda.
Alcune precisazioni però è bene farle, non tanto a beneficio dei detrattori della proposta di legge (che comunque, con le elezioni alle porte, non cambierebbero idea), ma degli stessi promotori affinché possano argomentarla in maniera corretta. Cominciamo con il dire che oggi l’Italia è il Paese UE che concede il maggior numero di cittadinanze (132.000 nel 2020), ma a beneficiarne sono soprattutto gli immigrati di prima generazione arrivati negli anni Novanta. E che secondo alcune stime, in prima battuta i potenziali beneficiari della riforma non sarebbero un milione di ragazzi stranieri, ma non oltre 330.000, ovvero coloro che hanno frequentato regolarmente almeno cinque anni di scuola. Dunque lo Ius Scholae non è uno Ius Soli mascherato, perché prevede un requisito molto più stringente. È vero che la cittadinanza può essere richiesta da un solo genitore – questo per non escludere i ragazzi che hanno uno solo dei genitori legalmente residente in Italia – ma il soggetto può eventualmente rinunciarvi una volta raggiunta la maggiore età. Dunque nessuna imposizione. Un’altra questione fondamentale: oggi un minore italiano e un minore straniero hanno sostanzialmente gli stessi diritti fondamentali. Questo in virtù della Costituzione e della Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza approvata dall’Onu il 20 novembre 1989 e ratificata dall’Italia due anni dopo.
Ma allora, che cosa cambierebbe? Oltre ad eliminare alcune disparità di ordine pratico, la sostanza della riforma mira a rendere compiuto e concreto il concetto di cittadinanza e a dargli un contenuto di inclusione sociale. Basiamoci ancora sui dati e sugli studi, non sulle panzane del Ministero della Propaganda. Il Progetto IMMERSE (Integration Mapping of Refugee and Migrant children in Schools and other Experiential environments in Europe), finanziato dal programma ricerca e innovazione dell’Unione Europea Horizon 2020, ha evidenziato in maniera chiara come i giovani figli di immigrati siano particolarmente esposti “a condizioni di vulnerabilità e discriminazione, anche di tipo simbolico, ovvero basate su rappresentazioni sociali negative di più aspetti identitari”. I minori immigrati hanno meno possibilità di inserimento nella scuola dell’infanzia (vi accede il 79% dei bambini senza cittadinanza italiana a fronte del 94% degli autoctoni), possono accumulare più facilmente un ritardo scolastico (che riguarda circa il 30% degli alunni stranieri e il 9% degli italiani), scelgono spesso indirizzi secondari superiori di tipo tecnico-professionale, abbandonano precocemente il percorso scolastico-formativo (tre volte in più rispetto agli autoctoni).
A mio parere il principio dello Ius Scholae dà l’idea che la cittadinanza è un percorso, una conquista, non un “regalo” come afferma qualcuno in maniera pretestuosa. Di più, si tratta di una tappa importante per una piena inclusione. Infatti il progetto che ho citato mette in luce come la restrizione delle reti sociali e amicali e la questione del mancato riconoscimento della cittadinanza italiana, hanno tra le conseguenze la mortificazione del desiderio di partecipazione e del senso di appartenenza a un territorio.