Correva l’anno 2017. Era appena uscito un mio romanzo: L’illusione che non basta. Ha una trama che si intreccia nel rapporto tra un italiano e una ragazza afghana e si sviluppa principalmente tra Mogliano e Venezia, anche se riporta alla condizione svantaggiata del popolo hazara: un’etnia da secoli oggetto di uno stillicidio bastardo. I suoi componenti hanno occhi a mandorla e praticano la religione mussulmana ma sciita, in uno stato intollerante prevalentemente sunnita, che li rendono obbiettivi ideali per lo sfogo cruento dei fanatici.
Per attrazione formidabile, ho desiderato mettermi in viaggio e accostarmi un poco ad una cultura orientale che per alcuni versi è affine alla nostra e per altri profondamente misteriosa. Essendo prudente, non mi era possibile avventurarmi in Afghanistan e così scelsi di volare in Iran. Ero motivato dal fatto che la protagonista del mio romanzo è di origine iraniana, innamorata di un regista hazara che aveva conosciuto all’università di Teheran. E poi l’Iran è il più importante paese sciita e gli hazara si riconoscono nella raffinata cultura iraniana, quanto noi in quella europea.
Il mio viaggio, soltanto di una decina di giorni, non aveva la pretesa velleitaria di appropriarmi, magari per osmosi, dello spirito di un popolo così complesso, ma quantomeno di fiutarlo. Da bravo turista avevo preparato il soggiorno, leggendo qualche libro: come quello della Azar Nafisi (Leggere Lolita a Teheran) e l’impareggiabile Alla ricerca di Hassan dell’americano Terence Ward, che è meglio di qualsiasi guida, per sondare la profondità del popolo persiano. Poi la traduzione del poema antico d’amore simbolico Leyla e Mainun di Nizami e qualche poesia di Hafez, perché la poesia in quel paese parla ancora vivida dopo mille anni, come questi versi:
Ero perso con lo sguardo verso il mare Ero perso con lo sguardo nell’orizzonte, tutto e tutto appariva come uguale; poi ho scoperto una rosa in un angolo di mondo, ho scoperto i suoi colori e la sua disperazione di essere imprigionata fra le spine non l’ho colta ma l’ho protetta con le mie mani, non l’ho colta ma con lei ho condiviso e il profumo e le spine tutte quante.
Ho potuto proprio constatare coi miei occhi frotte di giovani in pellegrinaggio alla tomba di Hafez, nella città magica di Shiraz.
Modesto scopo di questo mio articolo è quello di approfittare delle circostanze della cronaca dolorosa di questi giorni per attutire, se possibile, alcuni luoghi comuni, ma anche per offrire un pretesto per suscitare la curiosità di conoscere un paese che si confonde erroneamente con quelli diversissimi, per origini e cultura, dei popoli arabi. Evito volontariamente di analizzare in profondità gli scottanti temi politici, preferisco parlavi della mia breve esperienza tra la gente comune che spesso illumina meglio di qualche congresso.
In questi giorni scorrono sui televisori le immagini della rivolta, guidata dalle studentesse, al grido di Donna, Vita, Libertà che in persiano risuona anche più musicale (“Zhen, Zhian, Azadi!”) contro la fanatica imposizione del velo e del modo con cui le donne lo portano: l’omicidio di Masha Amini è stata la miccia, per far deflagrare un disagio molto profondo.
Una prima impressione, superficiale, potrebbe far pensare che l’Iran sia un paese retrogrado, detto in modo tranchant. Nulla di più falso: si tratta invece di un universo dalla grande sensibilità, intelligente, e che ambisce alla cultura contemporanea; alle troppo poche librerie che pure il potere esalta – malgrado eserciti per costituzione una censura assurda – fa riscontro un fiorente mercato nero di libri vietati.
Le contraddizioni si sommano: a Teheran nel 2016 è stato costruito il modernissimo gigantesco Garden Book Center, considerato probabilmente la più grandiosa libreria del mondo. Pur tarpata nelle ali, l’Iran è terra di grandi artisti, come il regista Abbas Kiarostami (quello dello stupendo film drammatico Il sapore della ciliegia, Palma d’oro a Cannes) o più recentemente il censuratissimo Jafar Panahi. Pur con tutte le sue paranoie, il regime non scoraggia affatto l’accesso alla scuola delle donne: si consideri, anzi, che il sessantacinque per cento dei laureati è costituito proprio da donne, tanto che il governo aveva varato pochi anni fa un piano d’accesso di quote azzurre, riservato agli uomini. Molte donne guidano importanti branche della società civile.
Così il paese vive in una specie di limbo, in bilico tra la contemporaneità e il retrogrado potere teocratico. Non dimentichiamo che fino all’avvento di Komeini al potere (1979), l’Iran aveva intrapreso un percorso di occidentalizzazione che ha lasciato tracce evidenti. Molte madri di queste ragazze che oggi protestano hanno fatto in tempo ad indossare le minigonne, e il velo era addirittura vietato, per accelerare l’emancipazione.
Un altro pregiudizio da abbattere: la xenofobia. Le bandiere americane bruciate e la diffidenza verso l’occidente sono solo l’espressione di un indottrinamento da Pasdaran che non tocca in profondità il sentire comune. Mi è capitato spesso di essere avvicinato da qualcuno o qualcuna, curiosi e disponibili, per il puro piacere di confrontarsi con uno straniero, magari soltanto per scattarsi insieme una fotografia: gesto ingenuo di apertura verso l’altro. L’ospitalità è quella comune a tutti i popoli orientali: non si riscontra l’affettazione commerciale che si sperimenta talvolta, magari, anche nella cosmopolita Venezia.
Non sarebbe mai successo che un gruppo di turisti, come è capitato, entrasse in un panificio per ammirare il titolare mentre sfornava il particolare pane fragrante, e spontaneamente ne ricevesse in dono per tutti. Piccole cose: segnali di una predisposizione. Le città sono molto sicure e la gente ama, dopo cena, sostare all’aperto, magari seduta a conversare su un plaid steso sull’erba curatissima di un giardino pubblico.
Certi vestimenti da lugubri suore non rappresentano minimamente un paese giovane che ha il culto della bellezza femminile: le ragazze, pur costrette a indossare il velo, sfuggono sempre come possono all’omologazione. Molto spesso le più giovani, mediamente di fiorente avvenenza, sono ben truccate e ricorrono con grande piacere anche alle cure dei chirurghi plastici, magari per rifarsi un naso che madre natura non ha ben formato. Esibiscono quasi come uno status symbol e con sussiego il piccolo cerotto, segno del recente intervento effettuato. Le stoffe degli abiti, quando sono neri (e non sono costrette a indossare le mortificanti tonache), lasciano spazio allo sbizzarrirsi dei ricami tono su tono che ne sottolineano comunque la distinzione. Lo stesso velo, lo hijab è portato con disinvoltura, lasciando scoperte le ciocche dei capelli. L’accanimento, non proprio abituale in tale contesto, del poliziotto che ha ucciso Masha, risulta l’azione di un soggetto tra i più stupidi e retrivi e perciò ancor più odioso.
Dalle mie parole di cui sopra si evince, evidentemente, una sorta di schizofrenia che costringe la popolazione- eccezion fatta per il consenziente popolo bue che ogni stato si onora di avere nei suoi recinti – a mantenere un atteggiamento pubblico di rigorosa osservanza delle formalità imposte dalle autorità religiose, come quella del divieto assoluto al consumo di alcoolici (anche la semplice parola vino è mal vista persino come citazione nei testi!). Ma nel privato la stessa gente, e anche i rigidi poliziotti per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio, coltivano con discrezione la propria personale inclinazione, piccoli o grandi vizi inclusi, e su questo le autorità fingono di glissare, purché non emerga sfacciatamente.
Dunque si tratta di una popolazione che la consorteria dell’ayatollah Khamenei mantiene intrappolata, come ogni regime, anche se questo si considera illuminato da Dio. D’altronde è impensabile esportare il nostro modello senza gravi conseguenze, come insegna anche il caso afghano: tra gli errori che portarono alla caduta dello stesso Scià Reza Pahlevi ci fu proprio quello di aver voluto forzare le tappe nella modernizzazione, quando il paese non era pronto: natura non facit saltus, direbbero Leibniz e Limneo. Tanto più che anche in Persia, la differenza di mentalità e l’evoluzione delle città è sideralmente lontana da quella delle campagne.
Dunque la protesta, partita dalle coraggiose ragazze iraniane, non riguarda di certo soltanto la battaglia contro il velo: sotto la cenere cova l’urgenza di un mondo che non concepisce più una guida occhiuta e retrograda da parte di coloro che, col pretesto della religione, tengono saldamente sotto i piedi una società giovane che scalpita, che ha un’età media di 31 anni. E se viene normalmente boicottata ad andare all’estero, viaggia però su internet, collegandosi e rapportandosi al mondo.
Purtroppo il potere in Iran non è soltanto teocratico/politico: naturalmente esso si è saldato in modo inscindibile con il possesso delle principali leve economiche. E qui sta il problema: fino a quando non emergerà all’interno della classe dirigente una élite, tra coloro che contano, a prendere in mano l’opposizione, ben difficilmente il generoso sacrificio delle ragazze iraniane potrà approdare a qualche risultato consistente: al massimo esse potranno aspirare, dopo le percosse e le morti, alla carota di qualche ammorbidimento superficiale che non interferirà sulla sostanza del problema.
Il grido di Donna, Vita, Libertà allude all’anelito per un cambiamento culturale e politico radicale. Incrociamo le dita e preghiamo un qualsiasi dio, purché non vendicativo, che ponga una mano benedicente anche sulle teste meravigliose di queste donne decise.
Treviso 13 10 2022 – Complimenti per l’articolo appassionato e coinvolgente. La condizione della donna nei paesi islamici mi ha sempre addolorato profondamente. Devo d’altra parte constatare che la forza aggregante della donna nelle rivoluzioni islamiche è stata spesso superiore a quella dell’uomo. Ricordo il ruolo della donna proprio nella Rivoluzione Khomeinista che ha abbattuto lo Scià quarantatré anni fa [febbraio 1979]. La mia impressione, anche alla luce dei recenti drammatici fatti è che nell’Iran, perlomeno in quello delle grandi città, la “Rivoluzione Khomeinista” sopravviva soprattutto nella gestione del potere, ancora monopolizzata dai religiosi più conservatori, ma non altrettanto nella società iraniana, che da tempo sta vivendo nuove incoraggianti aperture. A mio avviso è difficile pensare però a un cambio radicale nel potere a breve termine perché la Rivoluzione Khomeinista ha creato un sistema di controllo estremamente rigido, che anche nella sua componente più democratica non lascia davvero spazio ai gruppi che contestano la struttura della Repubblica Islamica. “Forza ragazze siamo con voi!”