«Carissimi Silvia e Nicolò, provate a chiudere gli occhi e anche per il futuro proporvi il desiderio di sognare. Se piano piano e con impegno immaginerete la vostra vita a colori, tutto vi apparirà più bello e più genuino. Sentirete un suono lontano, un venticello leggero e la forza dei sentimenti sui quali avete scommesso. Concedete al vostro cuore luce e calore, ma attenti agli incantesimi, perché i raggi del sole si riverberano certo anche sulle reciproche speranze ed aspettative. Camminate tenendovi per mano e portando il partner al centro del vostro universo, quello stesso “universo” di cui la gran parte di noi desidera ancora inebriarsi. Due cose, è noto, contribuiscono alla felicità: la prima è amare e la seconda è essere amati! L’augurio da parte mia è che lo spirito con cui avete deciso di sposarvi condividendo i vostri giorni e sogni, vi accompagni per tutta la vita. Istruzioni per l’uso: rispetto reciproco complicità ed un po’ di fantasia, Il resto verrà da sé!»
Colgo l’occasione del matrimonio di mia nipote Silvia per fare alcune considerazioni sull’Istituto matrimoniale nel nostro Paese. In questi ultimi anni il vissuto del matrimonio è cambiato e, probabilmente, si evolverà anche nel prossimo futuro. Una cosa è certa ci si sposa di meno, sempre più avanti negli anni e dopo un periodo più o meno lungo di convivenza. Questo purtroppo provocherà, tra l’altro, nel medio-lungo termine una decrescita demografica. In Italia risultano attivi quattordici milioni di matrimoni. Se ne celebrano circa 100.000 all’anno di cui 55% civili e 45% religiosi. Ogni anno però si separano 90.000 coppie; come è noto la separazione è l’Istituto giuridico che sospende gli effetti del matrimonio in attesa del divorzio e dunque fa decadere i doveri di coabitazione e di fedeltà. Ogni anno divorziano circa 70.000 coppie; il forte boom di questi ultimi anni è riconducibile all’istituzione del cosiddetto Divorzio breve [2015]. Negli ultimi anni la quota dei matrimoni misti [con cittadini stranieri] sul totale è praticamente rimasta invariata al 20%. Per quanto riguarda le unioni civili tra coppie dello stesso sesso sono circa 2.500 all’anno. Il velo al femminile ha ricoperto nei secoli diversi significati.
Ma la questione “velo” non è così semplice, né può essere ridotta a un problema di pura emancipazione femminile; lo dimostra il dibattito che si è acceso, alcuni anni fa, dopo gli attacchi terroristici a Parigi ed a Bruxelles. In quel confronto si è fatto del capo coperto delle donne il simbolo della minaccia islamica alla sicurezza ed ai valori dell’Occidente. Ma ci voleva la sensibilità e il sapere degli storici per far emergere criticamente il tema del “velo” sul capo delle donne dalle pastoie dell’ideologia all’analisi del significato di tale “copricapo” nei diversi contesti sia religiosi e sia sociali. Sull’argomento sono state prodotte Letture di ampio respiro che guardano al di là dell’immagine di una femminilità schiacciata e incapace di emanciparsi.
Questo perché la storia delle donne velate è insieme una storia di costume, di prassi, di spiritualità, di fede, d’identità personale/collettiva e deve tener conto del complesso significato che il “velo” ha assunto nella vita delle credenti, siano esse donne ebree, cristiane oppure musulmane. È su questo terreno che si approda a un primo punto fermo: «la prescrizione del velo femminile non è prerogativa delle religioni monoteiste».
Non lo è per l’Ebraismo, dove è invece vincolante che sia il capo dell’uomo a dover essere coperto con il tradizionale zuccotto, la kippah, durante le preghiere o lo studio dei testi sacri in segno di rispetto per la divinità. Benché la Bibbia sia piena di racconti di donne velate e benché le donne ortodosse usino l’inconfondibile tichel, il fazzoletto legato sulla nuca, non c’è alcun obbligo di coprirsi il capo. Il farlo è soltanto segno di pudore e di modestia. Il “velo”, dopo secoli d’imposizioni, oggi non è più un obbligo neppure per le donne cattoliche. Gli storici hanno ricostruito anche la ritualità del dono del velo alla monaca il giorno della sua consacrazione. In questo caso il “velo” è segno della verginità della sposa di Cristo, sottratta così allo sguardo di altri possibili pretendenti per restituirla soltanto alla vista di Dio; una specie di clausura nella clausura, poiché anche all’interno del monastero la monaca ha uno stile di vita e un modo di relazionarsi con le altre claustrali molto riservato.
Consuetudine che non ha niente di opprimente:“per quel suo essere sigillo della purezza, del pudore, dell’umiltà, della generosità e dell’intensità con cui la claustrale fa dono di sé a Dio rimanendo nascosta”. Il “velo” acconciato in modo diverso, scelto nel colore e nel tessuto che indicare l’appartenenza ad un Clan, il grado gerarchico o la funzione ricoperta ha attraversato i secoli arrivando al radicale giro di boa del Concilio Vaticano II. In quell’occasione il consesso dei Cardinali, nel rivalorizzare gli aspetti spirituali essenziali della vita delle comunità cristiana e monastiche, ha semplificato gli aspetti esteriori. Tanto che oggi, mentre le vesti e i colori si sono moltiplicati, il velo non è più obbligatorio, neppure per le donne laiche per le quali, fino al Concilio Vaticano II, valeva la norma canonica del capo coperto. Se esso sopravvive nelle funzioni viene portato in segno di devozione e rispetto. Del resto nel nostro Paese il fazzoletto da capo, il foulard, il velo per le “spose”, quello per il “lutto” o come elemento di seduzione, hanno accompagnato nei secoli molte generazioni di donne sia del popolo e sia dell’aristocrazia. Anche nel mondo arabo ancor prima della nascita dell’Islam [VII secolo d.C.] il “velo femminile” faceva parte della tradizione. In questi giorni i fotografi hanno immortalato l’esplosione di libertà di giovani donne del Kurdistan iraniano nell’atto di sfilarsi dalla testa il “velo”. è stato facile per molti leggere in quel gesto il coraggio delle donne islamiche, vittime di un sistema di sottomissione al potere maschile. Ma, mentre in seguito al Concilio Vaticano II il velo cristiano si è “liberato” dell’aspetto simbolico e nella Chiesa la condizione femminile sta lentamente cambiando in meglio, invece nel mondo islamico questo passaggio stenta a decollare.
Addentrandosi tra le contrapposte interpretazioni di alcuni passaggi del Corano a proposito dell’obbligo di coprirsi la testa, il significato da indagare è il ruolo della hijab, il grande foulard che nasconde il capo e il collo ma lascia libero il viso, viene spiegato da autorevoli studiosi: «che il “velo” non ha mai rappresentato un dogma nell’islam, un’obbligazione giuridica o un simbolo religioso, anche se oggi lo si vuole far passare come tale». Il “velo”, invenzione del XIV secolo, come segno distintivo e di riconoscimento dell’identità femminile musulmana al tempo dell’assedio di Bagdad da parte dei mongoli di Gengis Khan, allora ha rappresentato una reazione di difesa e di controllo da parte di una comunità costretta a misurarsi con usi diversi. Particolare da cui bisogna ripartire per capire i tanti e diversi motivi che spingono oggi le donne mussulmane a velarsi nei loro Paesi ed in Occidente.
Questione di devozione? Bisogno di visibilità o simboli di appartenenza? Desiderio di tranquillità o scatto d’orgoglio? Imposizione o libera scelta? Atto di sottomissione o ribellione agli standard occidentali? Integralismo o modernità? Certamente un ventaglio di opzioni a più sfumature in cui la fiera adesione al simbolo dell’Islam, magari in risposta alle difficoltà di integrazione in Occidente, sembra prevalere rispetto all’espressione di sottomissione che si dà per scontata. Una scelta diversamente motivata ma consapevole, rispetto a quella che si è sempre pensato fosse l’unica ragione del “velo islamico”: «nascondere, separare, schiacciare, rendere invisibile…»