Primo scenario. ‘Di qualunque cosa siano fatte le nostre anime, la mia e la sua sono la stessa cosa’. Io e mio padre eravamo così ed è con questa citazione letteraria dentro la carne che, a ogni respiro, faccio memoria di lui”, scrive nel suo diario Veridiana Adami, riprendendo un passaggio del romanzo “Cime tempestose” a lei caro. “Resta come sei, mentre sono via. Resta quella che amo”, la ragazza si sente rivolgere dal papà Ennio, come un inconsapevole addio, prima di vederlo “salire in auto e partire, presto inghiottito dalla lontananza”. In quel momento lei lo segue con lo sguardo “finché anche l’ultima nota brontolante del motore non si spense”. Padre e figlia non si rivedranno mai più. Siamo a Parenzo, Istria, anno 1943. Una settimana prima dell’8 settembre, la seconda Caporetto del Regno d’Italia, che nel volgere di una notte sconfessa l’alleanza con la Germania nazista per passare al campo anglo-americano, gettando nello scompiglio decine di migliaia di uomini in arme, lasciati senza ordini precisi in balia della rappresaglia tedesca. E, al confine orientale, consegna le popolazioni italiane alla vendetta slava.
Secondo scenario. “Il nome di mio padre era scolpito in ogni giuntura del mio essere, in ogni mio interstizio di pensiero, in ogni nervo della mia anima (…) La mancanza di mio padre, l’averlo perso per sempre, era la mia malattia cronica”, pensa con l’animo in tumulto Francesco Fontana, mentre si rigira cauto fra le mani, come una fragile pergamena trovata per caso, la lettera ingiallita che il papà, Renato, morto sul fronte greco nel 1941, gli ha fatto pervenire postuma nel giorno del suo ventiquattresimo compleanno. Siamo a Brescia, Lombardia, anno 1958.
Fra i due tasselli spazio-temporali, corrono quindici sofferti anni di dopoguerra in Italia e altrettanti di pace occhiuta e minacciosa in tutta Europa, chiamata “guerra fredda”. Fino al 1947, Parenzo e Brescia erano due città nutrite dalla stessa madrepatria. Mutati drasticamente gli assetti mondiali, la prima è costretta a cambiare bandiera e a integrarsi nella nuova Jugoslavia comunista, la seconda rinasce invece dalle ceneri del fascismo nella nuova Italia democratica e repubblicana. Cosa può unire due luoghi così lontani, in emisferi socio-politici agli antipodi, e due biografie tanto diverse come la storia di Veridiana e di Francesco? E’ un intreccio misterioso, sotterraneo e dolente, quello che una giovane scrittrice bresciana, Francesca Scotti, riesce a cucire in “La fedeltà dell’edera” (Edikit, Brescia, 2022, pagg.235, euro 16,00), romanzo avvincente e di ipnotica intensità, che sembra disegnare il ritratto postumo di un’intera generazione chiamata a ricostruire laddove quella precedente aveva distrutto. E’ ambientato in una Brescia che si sta lasciando alle spalle gli anni pesanti della ricostruzione per decollare sulle ali promettenti del boom economico. Ma potrebbe collocarsi in una qualunque realtà urbana della Penisola, in cui il vento dell’Est finì per sparpagliare – in quei quindici anni amari – migliaia di vite scampate alle persecuzioni del regime di Tito. Foibe, la morte nel terrore. Esodo, la fuga dal terrore.
Nell’anno di Brescia capitale della cultura, in binomio con la cugina Bergamo, questo libro ci consegna non solo il profilo di una città finalmente liberata dal volto – e sciolta dal voto – di “ferriera d’Italia”, tutta dedita solo a lavoro e affari, ma una pagina di letteratura universale, che nella patria del tondino trova linfa, stimoli e riferimenti precisi. Questa è, infatti, anche la città dall’animo solidale, di matrice mista laica e cattolica, una vera Leonessa del sentimento nazionale, che in pochi mesi, fra il 1946 e 1947, seppe mettere in piedi, a dispetto del contesto di generale miseria post-bellica, un grande campo profughi per gli italiani scappati dai borghi istriani, fiumani e dalmati jugoslavizzati con la forza (per la cronaca, altri quattro ricoveri sorsero fra lago di Garda e Ovest bresciano).Ma non si tratta solo di questo. Di dimostrare che, anche laddove il lavoro è un credo molto concreto – quasi calvinista- del “fare”, ferve una vita culturale intensa e si ha a cuore la memoria del proprio passato. Francesca Scotti osa di più. Entra nel ruolo più difficile per uno scrittore: saper scendere nei recessi meno visibili, o che altri non vedono, esplorarli minuziosamentee riportare in superficie, con unlinguaggio evocativo e immaginificodaintarsiatrice di emozioni e di sentimenti, i tormenti dell’anima che affliggono – spesso per tutta la vita – i sopravvissuti a una tragedia. Riesce a dare voce, con spontaneo afflato poetico, agli orfani di infanzie felici, espropriat isenza preavviso di fondamentali figure di riferimento, condannati dal tribunale della Storia a trascinarsi come brandelli di famiglie spezzate, disperse per mondi ignoti. Li fa crescere in fretta, rafforzati come sono dall’esperienza del dolore, insegnando loro ad amare, sperare, costruire un futuro migliore per la loro progenie. Ed è proprio questo a fare di un racconto un’opera letteraria,in grado di parlare in tutte le lingue a chiunque,e ovunque, sappia ascoltare e voglia leggere la realtà oltre le consuetudini o i luoghi comuni.
Gli occhi profondi di Veridiana e Francesco celano l’impronta lasciata nel profondo del loro essere da due padri generosi e forti, che la crudeltà della guerra – o di uomini incattiviti dalla guerra – ha strappato troppo presto ai loro figli. Figli destinati a crescere con il macigno insopportabile della loro assenza. Orfani, per l’appunto, che si trovano a incrociare le loro vite perché così ha voluto il capriccio del Caso, o l’inesorabile attrazione che scatta fra naufraghi di differenti ma assimilabili sventure.
“La fedeltà dell’edera” è anche un convincente romanzo storico, in cui l’autrice si addentra con sguardo rigoroso e obiettivo, sempre sorretta da un incrollabile spirito antifascista, in tutti gli anfratti che il secolo breve ha scavato nell’Italia precipitata dall’esaltazione imperialistica alla disillusione per una guerra insensata e perduta. Il personaggio inventato di Veridiana Adami ricalca in buona parte la figura reale dell’esule istriana Mafalda Codan. Richiama l’odissea allucinante, costellata di violenze inaudite e lutti dolorosi (sette famigliari massacrati nelle foibe, tra cui il padre, la sorella e il fratello) che questa donna eccezionale ha consegnato alla memoria collettiva in un celebre diario scritto negli anni della sua prigionia. Mafalda, fuggita dall’Istria con la madre e il fratello dopo gli eccidi del settembre 1943, venne arrestata nel maggio 1945 a Trieste dai partigiani titini, e poté riacquistare la libertà solo nel 1949, dopo uno scambio di prigionieri fra Italia e Jugoslavia. Si stabilì quindi a Bibione, dove fece a lungola maestra elementare, mise su famiglia e si spense infine nel 2013.
Anche Veridiana è un’insegnante, che un rivolo dell’esodo porta a Brescia. L’incontro, una sera di giugno del 1958, con Francesco, che della tragedia del confine orientale non sa nulla ma ama alla follia l’attrice istriana Alida Valli, segna l’inizio di un lungo viaggio ideale. Innanzitutto nella memoria. La memoria sfregiata di Veridiana, che prima di eclissarsi misteriosamente fa pervenire al giovane amico bresciano il proprio diario. E la memoria sofferente di Francesco, riaccesa dalla lettera postuma del padre e illuminata dalla storia sconvolgente della misteriosa amica istriana, sopravvissuta alla rovina come l’edera che cingeva la casa di Parenzo, “tutta la mia gioia e speranza, la mia musa e luna in terra, sin da quando ero bambina”. Se, come e quando questi orfani al tempo stesso di guerra e di pace (pace con sé stessi) si ritroveranno, è la domanda che insegue senza tregua il lettore.
Treviso 20 02 2023 – La guerra è sempre un dramma ed in essa “non ci sono ne vincitori ne vinti, c’è solo distruzione e morte”. Forse solo la cultura ci potrà salvare…