Otto anni fa ci lasciava don Giorgio Morlin. Ho già scritto che mai come in questo tempo siamo orfani della sua umanità e della sua intelligenza. Perché don Giorgio era molto di più di un sacerdote. Era un parroco gentile e disponibile al servizio delle comunità che si è trovato a guidare, in particolare a Caerano di S. Marco e a Mogliano Veneto. Era un uomo semplice e generoso, vicino agli ultimi, capace di leggere i cambiamenti della società e di dare risposte concrete ai bisogni delle persone più fragili, di coloro che venivano da lontano e di cui nessuno sembrava curarsi. Tutto ciò che ha realizzato è rimasto come atto concreto.
Un uomo, don Giorgio, con cui era sempre molto stimolante confrontarsi. Lo ricordo in un incontro quasi clandestino della primavera del 2012 – non ne trovate traccia sui giornali – presso la canonica di Mazzocco. Eravamo in pochi: una decina di suoi parrocchiani e Concita De Gregorio che voleva conoscere il prete che l’anno prima, durante un’omelia, aveva letto un suo editoriale comparso sull’“Unità” e dedicato al caso Ruby-Berlusconi. Un testo poi fotocopiato e distribuito all’uscita da messa. Scandalo. Ma solo per chi voleva scandalizzarsi. “Io sono un uomo di Chiesa. Cosa deve fare un prete se non invitare i fedeli a fare una seria riflessione sulla decadenza dei valori della società”? Questo era don Giorgio. Fu un incontro intenso, ricco di emozioni. Il mio rammarico è stato quello di non averlo conosciuto da amministratore locale, perché arrivai a Mogliano nell’aprile del 2017, due anni dopo la sua morte: penso che avremmo fatto cose molto belle insieme.
Ma io don Giorgio l’avevo conosciuto diversi anni prima attraverso la lettura dei suoi libri. Perché oltre all’impegno ecclesiale e sociale, lui ha dedicato molte energie anche alla storia della Chiesa trevigiana del Novecento: ne è stato uno studioso attento con ricerche in cui si è spinto ad analizzare perfino le dinamiche postconciliari. Il volume dedicato nel 2005 alle vicende dei parroci della diocesi di Treviso dalla Resistenza al secondo dopoguerra, rappresenta ancora oggi, a distanza di quasi vent’anni, un punto di riferimento per la storiografia non solo locale (La Chiesa di Treviso dall’8 settembre 1943 al 18 aprile 1948. Frammenti di storia, di sofferenza e di libertà nelle cronache di alcuni parroci trevigiani, Cierre-Istresco). Un libro in cui don Giorgio ha ricostruito le vicende di una parte del clero trevigiano tra nazifascisti e partigiani, partendo dall’armistizio e indagando i meandri del mondo cattolico e le ragioni che hanno condotto la stragrande maggioranza dei sacerdoti a collaborare con la Resistenza. Particolarmente rilevante è stato infatti il ruolo che molti parroci, divisi tra preoccupazioni morali-religiose e solidarietà, hanno avuto nell’aiutare il movimento di Liberazione e a fornire protezione e supporto agli ebrei italiani e stranieri in fuga dai rastrellamenti. Un clero che certamente era diviso tra filofascismo, afascismo e antifascismo ma che, sapientemente guidato dal vescovo Antonio Mantiero, riconobbe la parte giusta, anche di fronte alla violenza. La Chiesa trevigiana, pur senza prendere una posizione ufficiale a favore dell’antifascismo, che in quella fase sarebbe stata impossibile, svolse infatti un indiscutibile ruolo morale riconosciuto da tutti. Il periodo che va dalla Liberazione alle elezioni del 18 aprile 1948 è certamente uno dei più complessi da studiare, ma don Giorgio è entrato correttamente e onestamente anche nelle spinose questioni di un complicato dopoguerra, in cui il “nemico” non era più il fascismo, bensì il comunismo e la posizione della Chiesa non poteva non essere neutra: “Al clima di sostanziale collaborazione che caratterizza l’esperienza unitaria della Resistenza, tra i democristiani e i comunisti subentra, dopo una reciproca e non dissimulata diffidenza, un’aperta ostilità postbellica. Per i cattolici, il comunismo è “il nemico” da sempre esistito ma che, tuttavia, nella coabitazione forzata dell’emergenza resistenziale, è stato determinante nel vincere il nazifascismo. Ora, superata la fase bellica, per i cattolici nasce il dovere di far fronte ad una realtà politica nuova in cui il socialcomunismo, avendo forti probabilità di andare al potere democraticamente, rappresenta, appunto, il nuovo avversario da battere. E questo si verifica non solo nella normale dialettica politica tra i partiti ma si trasferisce anche nel tessuto civile della società che si compatta attorno ai due blocchi contrapposti”.
Un grande uomo Don Giorgio. Da ateo l’ho conosciuto, apprezzato e perfino ammirato. Le (purtroppo poche e brevi) occasioni di scambi sono sempre state interessanti e fertili