Aspettarsi che Giorgia Meloni dicesse mezza parola sul colonialismo italiano durante il suo viaggio in Etiopia era impensabile. Che chiedesse scusa per i massacri compiuti, manco a parlarne. E forse, visti i precedenti, è stato meglio così. Avrebbe potuto uscirne elegantemente rispondendo alla domanda del cronista. Sarebbe bastata una battuta di condanna. Ma niente, proprio non ce la fatta.
Eppure, di cose da farsi perdonare l’Italia ne ha moltissime. Ne ricordo a mo’ d’esempio solo una. Senza dubbio tra le più significative. Il 19 febbraio 1937 viene compiuto ad Addis Abeba un attentato contro il viceré Rodolfo Graziani, che rimane gravemente ferito. Subito scatta una feroce rappresaglia, guidata dal federale della città, Guido Cortese, che porta nel giro di tre soli giorni all’uccisione di circa 3.000 civili. Le stesse fonti italiane parlano di un massacro senza precedenti, interi quartieri abitati dagli indigeni subiscono il rastrellamento da parte delle camicie nere, le cronache e le testimonianze registrano episodi di una violenza inaudita e del tutto gratuita: «Nel tardo pomeriggio, dopo aver ricevuto disposizioni alla Casa del fascio, alcune centinaia di squadre composte da camicie nere, autisti, ascari libici, si riversarono nei quartieri indigeni e diedero inizio alla più forsennata “caccia al moro” che si fosse mai vista.
In genere davano fuoco ai tucul con la benzina e finivano a colpi di bombe a mano quelli che tentavano di sfuggire ai roghi. Intesi uno vantarsi di “essersi fatto dieci tucul” con un solo fiasco di benzina. Un altro si lamentava di avere il braccio destro stanco per il numero di granate che aveva lanciato. Molti di questi forsennati li conoscevo personalmente. Erano commercianti, autisti, funzionari, gente che ritenevo serena e del tutto rispettabile. Gente che non aveva mai sparato un colpo durante tutta la guerra e che ora rivelava rancori ed una carica di violenza insospettati. Il fatto è che l’impunità era assoluta» (Testimonianza di A. Dordoni, citata in Angelo De Boca, Gli italiani in Africa Orientale, III, La caduta dell’impero, Mondadori, Milano 1992 (ed. orig. 1982), p. 85).
A sorprendere è la circostanza che la rappresaglia venga condotta proprio da quegli italiani che potremmo definire “normali”, anche se stiamo parlando comunque di persone che hanno raggiunto l’Africa Orientale allo scopo di arricchirsi facilmente, magari sfruttando le possibilità di lavoro che offre l’apparato militare e civile coloniale.
La reazione italiana all’attentato a Graziani culmina con la rappresaglia nei confronti del clero copto, affidata al generale Pietro Maletti, che per questo compito fa ampio ricorso a truppe musulmane. Fin dalla proclamazione dell’Impero, le autorità italiane avevano individuato nella comunità religiosa un possibile elemento d’opposizione per la sua capacità d’esercitare un’enorme influenza sulla popolazione etiopica, attraverso ad esempio le profezie su un’imminente conclusione dell’occupazione. L’attentato venne quindi preso a pretesto per assecondare i timori della classe dirigente coloniale con una rappresaglia che doveva colpire in maniera definitiva il clero locale – duramente osteggiato da Graziani – e quelli che con un certo disprezzo venivano definiti indovini, cantastorie o stregoni.
L’episodio più rilevante della reazione fascista rimane l’eccidio del monastero di Debre Libanos, considerato dal viceré un «covo di assassini, briganti e monaci assolutamente a noi avversi» e corresponsabili dell’attentato. Dopo un’attenta preparazione, il 20 maggio, in occasione di un’importante celebrazione che avrebbe richiamato centinaia di religiosi e visitatori, le truppe fasciste composte di carabinieri e di ascari occuparono il luogo sacro, catturando decine di persone e procedendo subito all’esecuzione dei disabili e degli ammalati presenti. Il giorno successivo iniziò il vero e proprio massacro in cui furono passati per le armi, ricorrendo alle mitragliatrici pesanti, complessivamente 320 tra monaci, diaconi e laici; altri 129 vennero trucidati il 26 maggio, anche se le testimonianze dei sopravvissuti parlano di un numero molto superiore di quello ufficiale. È certo, comunque, che in sole due settimane i mercenari agli ordini di Maletti si resero responsabili dell’uccisione di 2.523 «ribelli», dell’incendio di 115.422 tucul e della devastazione o distruzione di numerosi luoghi sacri.
Quella appena ricordata rappresenta probabilmente la pagina più vergognosa dell’intera storia del colonialismo italiano. E fu il più grave eccidio di cristiani mai avvenuto nel continente africano. Ma detto che nel dopoguerra nessuno dei responsabili pagò per questi crimini, rimane pure lo sconcertante silenzio sulla vicenda tenuto a livello pubblico, rotto solamente dagli studi di Angelo Del Boca e di pochi altri. Da notare infine che questi crimini di guerra furono conosciuti anche grazie a un documentario prodotto dalla BBC e trasmesso nel 1989: Fascist Legacy di Ken Kirby e George Farley. Un documentario a lungo censurato dalla televisione italiana, che anche in questo caso ha dato prova di essere uno strumento molto efficace per la rimozione delle pagine più scomode della storia d’Italia.
Purtroppo pur essendo in pochi, non siamo gli unici a conoscere e ricordare quelle storie. Perchè “purtroppo”?
09/09/2012: “E’ accaduto il mese scorso. Ad Affile, piccolo comune a est di Roma, la giunta di «centrodestra» – chissà quando ci libereremo di quest’eufemismo! – ha inaugurato un sacrario dedicato a Rodolfo Graziani (1882 – 1955).
Graziani – che è sepolto nel locale cimitero – fu governatore della Cirenaica durante la «riconquista» fascista della Libia (1930-31), comandante del fronte sud durante l’invasione dell’Etiopia (1935-36), viceré d’Etiopia nel biennio 1936-37 e comandante delle forze armate della Repubblica di Salò durante la guerra civile del 1943-45.”
https://www.wumingfoundation.com/giap/2012/09/laguzzino-jettatore-e-il-mausoleo-delle-sfighe/