L’Ufficio Stampa della Corte dei Conti ci informa dei ritardi con cui, allo scopo di migliorare la “qualità della vita” nelle aree metropolitane, si sta portando avanti nel nostro paese una “linea di intervento” finanziata con 330 milioni del Piano Nazionale Ripresa e Resilienza, denominata “tutela e valorizzazione del verde urbano ed extraurbano”.
I rilievi della Corte dei Conti riguardano la scorretta applicazione, verificata dai carabinieri forestali, di tale “linea d’intervento”: sia nella “fase di progettazione” (tempi, luoghi,ecc.), sia nella “fase esecutiva”. I carabinieri forestali hanno verificato sia i ritardi nella piantumazione di 1.650.000 alberi che avrebbero dovuto essere collocati entro il 31/12/2022, sia il modo assai balordo con cui si sono conteggiati i semi, anche se solamente interrati in vivaio, come piante già cresciute e collocate in luoghi predefiniti: non ci sono limiti all’intraprendenza amministrativa italica!
Per tale ragione la Corte dei Conti ha invitato il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica a vigilare sulla corretta ed efficace applicazione della “linea di intervento” finanziata dal PNRR per evitare ritardi nella sua attuazione che potrebbero pregiudicare, oltre che il finanziamento, il raggiungimento dell’obiettivo di piantare 6.600.000 entro il 31 dicembre 2024.
Resto senza parole: è frustrante il dibattito sulla mancata piantumazione di nuovi alberi. C’è chi, giustamente, ci rammenta come la mancanza di un numero sufficiente di vivai forestali in grado di far crescere alberelli di almeno 4-5 centimetri di diametro e alti almeno un metro e mezzo o due condiziona la possibilità di collocarli “efficacemente” nei luoghi adatti alle loro “funzioni mitigatrici”. Ma è una parte del problema perché nei centri urbani manca lo “spazio” in senso geografico, morfologico, fisico. Quello che manca è il “suolo non ancora cementificato” su cui dovrebbero crescere gli alberi: è il “suolo naturale” su cui farli crescere che sta creando problemi alle amministrazioni di “cemento-sinistra” e di “cemento-destra” nell’attuazione della linea di intervento “tutela e valorizzazione del verde urbano ed extraurbano”.
Allora come stupirci che in alcune città il bando per la realizzazione di tale linea di intervento finanziata dal PNRR vada deserto?
Il caso di Milano è eclatante. In un anno a Milano, una città che si professa “green”, la cementificazione è cresciuta tra il 2020 e il 2021 di 8 volte (Rapporto Ispra 2022) e la percentuale di suolo cittadino cementificato si attesta ora al 58%. Ma di cosa parliamo? Come meravigliarci se la misura contenuta nel PNRR non dovesse realizzarsi e della relativa perdita del finanziamento? Nel bel paese non si è mai fatta una seria “legge urbanistica” e i risultati sono quelli che constatiamo nell’applicazione della “linea di intervento” finanziata dal PNRR.
La desolante storia urbanistica dell’Italia non ha mai visto nascere una seria “legge urbanistica” che reggesse il confronto con le leggi urbanistiche di Francia, Germania, Inghilterra, Svizzera, dove il contenimento del consumo di suolo e il controllo dello “sprawl urbano” ha consentito la creazione di cinture verdi (green belt) e la salvaguardia di polmoni verdi dentro la città o a ridosso dei centri storici. Come meravigliarci che il bando vada deserto: gli amministratori (e quelli che li hanno preceduti) non sanno dove piantarli tutti quegli alberi. Ci sono poi dei limiti nello stesso bando di assegnazione delle risorse che prevede delle dimensioni minime delle aree in cui piantare gli alberelli: un’autentica cavolata, scritta da chi non conosce le dimensioni e le forme del “consumo di suolo” assunte negli ultimi 50 anni nel nostro paese. Quali “foreste urbane” o “boschi planiziali” sono possibili nei nostri centri urbani caratterizzati da livelli asfissiati di cementificazione? E la soluzione per creare “foreste urbane” non sta, per ben due motivi, nemmeno nella “scorciatoia antropocentrica” di utilizzare il suolo agricolo rimasto ai margini dell’urbanizzazione incontrollata. In primo luogo, perché il “suolo naturale” svolge comunque già la sua “funzione ecosistemica”: “il suolo naturale trattiene molto il carbonio e rilascia poco e molto lentamente”(Paolo Pileri). In secondo luogo, perché il suolo agricolo, vitale per il raggiungimento dell’obiettivo della “sovranità alimentare” in cui siamo deficitari, sta diminuendo in modo vertiginoso: tra il 2012 e il 2018 il suolo agricolo perduto ha pregiudicato la possibilità di coltivare 3 milioni di quintali di prodotti agricoli (Rapporto Ispra 2019). Quindi, le “infrastrutture verdi” nei nostri comuni per poter svolgere le funzioni ecologiche necessarie alla qualità della “vita sana” della popolazione, dovendo essere collocate nel “cuore” dei centri urbani, non possono che essere giocoforza “frammentate”, formate da una quantità di alberi disseminati, sparpagliati per la città. Così facendo gli alberi non costituiranno un insieme organico, compatto, tipico di una piccola foresta, ma comunque, ci si augura, possano comunque fare “massa critica” nella fornitura dei loro “servizi ecosistemici”: sia in termini di abbassamento medio della temperatura d’estate, sia nell’assorbimento con le loro radici dell’acqua meteorica, sia nello stoccaggio di CO2 e “polveri sottili”. Ci si deve impegnare, oltre che per chiedere o deliberare nuove piantumazioni e fermare l’abbattimento di “alberi anziani sani”, anche per chiedere di ridisegnare la “pianificazione urbanistica”, riducendo drasticamente la copertura di cemento e asfalto degli spazi del vissuto cittadino, affiancando una poderosa “pianificazione forestale diffusa” del tessuto urbano. A costo di accettare, ad esempio, la “modifica alla viabilità” che preveda la trasformazione di una strada a due carreggiate e senza alberi in una strada a senso unico ad una carreggiata per far posto agli alberi e diventare così un “viale alberato”. A costo di restringere, ad esempio, la larghezza di un marciapiede fatto di solo cemento e mattonelle per trasformarlo in un “marciapiedi alberato”. A costo di ricorrere, ad esempio, alla tecnologia in grado di creare quello “spazio minimo per la crescita sotterranea delle radici di alberi di 50/60 anni, anche nel caso in cui queste inizino a sollevare l’asfalto e prima di pensare “istericamente” al loro immediato abbattimento. A costo, nelle metropoli, ad esempio, di usare molto meno l’auto e organizzare un trasporto pubblico efficiente come in molte metropoli del Nord Europa.
Un esercizio che ho fatto l’estate scorsa consisteva nell’ immaginare gli spazi urbani dove gli alberi e le loro funzioni ecosistemiche avrebbero potuto mitigare gli effetti della calura estiva: un marciapiede di solo cemento e mattonelle, un parco giochi con pochi e sparuti alberi, una strada da trasformare in viale alberato.
Purtroppo una sorta di “pirateria urbanistica” ha contraddistinto la politica abitativa, produttiva, infrastrutturale del bel paese che ha finito per creare, decennio dopo decennio, una “dispersione anarchica” degli insediamenti e un “consumo di suolo” del 7,13% contro una media europea del 4,2%. Perché stupirsi poi che in Italia ci siano 10 milioni di case vuote (dati ISTAT 2019).
Nelle nostre città, ormai irrimediabilmente degradate dal punto di vista urbanistico, uno “sguardo ribelle” dovrebbe ispirarci ad immaginare “habitat urbani” diversi, a costo di sacrificare abitudini consolidate nel nostro modo di muoverci o di camminare. Al punto a cui è giunta la penosa storia urbanistica del nostro paese è necessario fare uno sforzo per “salvare il salvabile”, allo scopo di migliorare la “qualità della vita” nei centri urbani e, per far questo, è “pragmaticamente” necessario pensare a tutti gli angoli, le nicchie, i punti e gli scampoli di suolo sopravvissuti alla cementificazione che possono essere oggetto di interventi di “piantumazione” e “rinaturalizzazione”. Magari non avremo delle foreste urbane compatte, di grandi e medie dimensioni (di qualche ettaro), ma magari potremo avere più viali alberati, marciapiedi alberati, parcheggi alberati, considerandoli una forma di piccola infrastrutture verde: d’altronde questa è la situazione a cui ci ha costretto un’ignoranza tutta italiana sull’uso e consumo di suolo.
In Veneto una vergognosa legge regionale ha legittimato il consumo di suolo dei pochi spazi verdi rimasti all’interno degli “ambiti di urbanizzazione consolidata” facendolo rientrare in una delle sedici deroghe, deroghe che costituiscono l’anima e la “sostanza giuridica normativa”.
Le deroghe delle legge veneta sul suolo costituiscono un insieme normativo diabolico che sta sterminando prati, alberi, siepi sopravvissuti all’urbanizzazione, mentre l’ambientalismo veneto e le opposizioni non si impegnano a combattere un “crimine ambientale soft”, quale dovrebbe essere considerato il consumo di suolo, quando questo assume proporzioni ecologicamente inaccettabili dal punto di vista ambientale e climatico. La deroga, che consente il consumo di suolo negli “ambiti di urbanizzazione consolidati”, fa sì che nei contesti urbani veneti i contenuti della legge regionale per il contenimento del consumo di suolo vadano contro, in modo frontale e sfrontato, l’articolo 6 della legge n.10 del,14/1/213 “Norme per lo sviluppo degli spazi verdi urbani”.
Senza la salvaguardia del suolo non ancora consumato non possono nascere “infrastrutture verdi”, di piccole o grandi dimensioni, frammentate o disseminate nel territorio. Anche la “natura non coercitiva” dei “Criteri ambientali minimi per il servizio di gestione del verde pubblico”, contenuti nel Decreto del Ministero dell’ambiente del 10/3/2020, nella loro riduttiva veste di “raccomandazioni senza obblighi”, compromettono l’efficacia di una politica per il verde urbano e allontanano un cambio di rotta assolutamente necessario e urgente in tema di “forestazione urbana”. Che dire: la mancanza nelle nostre città di “suolo naturale” e quindi di “spazio” per far posto ai nostri amici alberi è talmente evidente che non la vediamo.
Ottima analisi. Condivido volentieri.
Treviso 24 04 2023 – Grazie per questo ricco contributo alla conoscenza ambientalista…