AVANZI DI UN MONDO IMPERFETTO MA CORTESE

Come riuscire a sopravvivere, senza uscire di senno, in mezzo a quel che resta – nel ricordo e nel cuore – di un mondo che improvvisamente non esiste più? Un mondo che si è miseramente sbriciolato davanti ai tuoi occhi sgomenti? Come metabolizzare la perdita irrecuperabile di un cortese “modus vivendi” spazzato via con furia, come un castello di sabbia trascinato da un’onda più lunga e cattiva che tutto sommerge repentina, mentre tu, immobile o distratto, ne stavi decantando ancora la perfezione costruttiva? Quella che un tempo si chiamava Jugoslavia – e rappresentava per inciso la nostra cortina di ferro adriatica – è un caso più unico che raro di sonnambulismo di massa, in cui milioni di cittadini non hanno saputo o voluto vedere il cataclisma in arrivo, nonostante i tanti segnali premonitori.  In Bosnia-Erzegovina, in particolare, il “grande imbroglio” della guerra etnica scatenata da un presunto odio atavico fra serbi, musulmani e croati, magistralmente smascherato e raccontato da giornalisti coraggiosi come Paolo Rumiz e Luca Rastello, è andato in scena come un “omicidio perfetto”, per riprendere il fortunato titolo di un saggio dello storico Marco Ventura, ordito dai due grandi camaleonti politici di questa tragedia balcanica: il serbo Slobodan Milosevic e il croato Franjo Tudjman.  Entrambi abili manipolatori della storia e piazzisti di memoria pubblica contraffatta.

A distanza di trent’anni, Sarajevo, Prjedor, Srebrenica, solo per citare gli esempi più eclatanti, restano delle città d’inciampo di un becero nazionalismo. Sfregiate per sempre dal massacro non solo di un popolo (i musulmani, che più correttamente dovremmo definire “bosgnacchi”), ma di un’intera civiltà, laica e urbana, fondata sulla tolleranza e il rispetto delle differenze. Molti dei loro abitanti, usciti vivi da quel campionato interetnico degli orrori, se ne sono andati il più lontano possibile, a cercare di dare un senso al vivere. Pochi sono tornati, per poi fare spesso retromarcia, delusi. Non è affatto semplice raccontare, oltre che capire, i compromessi resisi necessari, la tristezza composta e la macerazione nell’anima dei naufraghi di quel mondo scomparso. A meno di non possedere, come Božidar Stanišić, il dono di una totale immedesimazione empatica con loro. Di riuscire a muoversi nei corridoi intricati di queste anime ricucite a fatica dalle ferite della guerra – provata o scansata poco importa, le schegge del male colpiscono comunque e ovunque – con leggerezza, ironia, gentile profondità. Con il vantaggio, che a volte è – ma non qui – un limite, di appartenere a pieno titolo alla medesima categoria della profuganza, da molti intesa come una sorta di dolente pellegrinaggio con le stigmate della “vittima”, mai risarcita, di un sopruso della Storia. No, a leggere l’ultimo lavoro dello scrittore nato a Visoko, laureato in Filosofia a Sarajevo, professore di liceo a Maglaj fino al 1992 e riparato infine in un paesino del Friuli, Zugliano (noto per ospitare un importante centro di accoglienza e cultura per immigrati), non abbiamo a che fare con il lamento o il risentimento dell’esule perennemente indignato. “La cena”, sottotitolo significativo “avanzi dell’ex – Jugoslavia” (Marotta&Cafiero, 2022, pagg. 245, euro 15,00), è una serissima quanto divertente commedia umana, ambientata fra le pareti domestiche di tante famiglie di espatriati bosniaci. Immigrati ed extracomunitari, dunque, a lungo pure clandestini, alle prese con la dura traversata della vita – nel loro caso, una vita reinventata dalle fondamenta – , sempre sospesi fra un “prima” fissato nella memoria (fino alla fissazione-ossessione sul passato che non può più tornare) e un “dopo” sempre ricco di sfide e incognite.

Nelle nuove patrie ospitanti (tutto il prisma geopolitico delle democrazie cosiddette avanzate) il panorama è continuamente cangiante. In Italia, i protagonisti delle cinque storie proposte si muovono fra traslochi da una triste abitazione di periferia a un’altra solo un po’ più comoda. Fra cambi frequenti di lavoro, in mansioni comunque faticose o umili, sottopagate e dequalificate rispetto ai ruoli rivestiti nella vita precedente. Fra quotidiani confronti con figli ormai grandi, cresciuti in una precarietà ontologica che li spinge naturalmente ad emigrare, appena possibile, in altri “altrove” dove inseguire meglio i propri sogni. “Mio padre mi diceva ‘Appena hai un’occasione, fuggi da questo paese!’”, racconta alla voce narrante una matura signora bulgara scappata in Italia dopo lo storico 1989 nell’Est Europa.

Božidar Stanišić è un estrattore e cesellatore esperto di sentimenti, sfumature caratteriali, mimiche facciali, linguaggi dell’anima e del corpo, e con il suo stile sobriamente elegante e causticamente leggero, ci fa partecipare, ad esempio, a una cena, una classica cena bosniaca in un appartamento di Milano, i cui partecipanti sono accomunati dall’essere tutti degli sradicati ripiantati. Si ride, si scherza, si pasteggia amabilmente. Ma, a un certo punto, qualcuno fa una domanda sul comunismo e la conversazione improvvisamente sale di tono, si infiamma fra chi – il padrone di casa bosniaco – lo considera una storia ormai “morta e sepolta” e chi – un ex sindacalista sudamericano – lo difende come un grande ideale tradito. Il ramoscello d’ulivo è una chitarra che si offre di accompagnare la voce ispirata del polemico ospite.  Una scenetta al limite del melodrammatico, quando il focoso cantante-cantore di un vagheggiato ideale comunista, si accascia colpito da un malore e termina la sua serata su un’ambulanza del 118.

Dove Stanišić dà il meglio nella declinazione letteraria della sua ironia tipicamente balcanica, è nei dialoghi spesso surreali e coloriti fra coniugi. Fra la moglie nostalgica del tempo “che fu” nel paese di origine e il marito sottilmente caustico nel confutare qualsivoglia accenno di amarcord. I quadretti domestici si fanno esilaranti quando suona il campanello, ospite inatteso, il vecchio zio Beki, profugo giramondo e fascinoso maestro nell’arte di vivere a scrocco. Memorabili i duelli dialettici, condotti in punta di fioretto e qualche preciso affondo, cui lo sollecita il “vecchio” della giovane voce narrante. Un uomo concreto, sgobbone sul lavoro e flemmatico in famiglia, l’emblema del bosniaco che ha saputo reinventarsi nel paese ospitante, accettando gli inevitabili compromessi al ribasso della nuova condizione.

Poi ci sarebbero le mirabili rappresentazioni che l’autore riesce a costruire attorno ai frequenti “agguati” della memoria. Rimandi, richiami alla vita di prima, alle tradizioni di buon vicinato e solidarietà fra le persone, alle poche ma solide sicurezze sociali perdute, e naturalmente alla guerra che tutto ha modificato. Riferimenti inseriti con tocchi discreti nei discorsi fra genitori, al termine di un’altra faticosa giornata di lavoro, o nelle riflessioni fatte dalle voci narranti del figlio maschio o femmina delle cinque storie. Ci sarebbe anche l’esegesi della filosofia esistenziale di questi ultimi, le seconde generazioni, che poco o nulla ricordano di quel tempo precedente. Ma quando lo ricordano, ne portano ancora le tracce, i traumi, e qualche stranezza comportamentale. Figli e figlie che sono in tutto e per tutto giovani dell’oggi. Portatori di una precarietà globalizzata, che sanno essere tenaci e combattivi, come pure ipnotizzati da un’eterna incertezza. Il loro problema è, naturalmente, costruirsi un futuro più stabile e sereno, possibilmente non inquinato dalla maledizione storica che si è abbattuta sulla terra dei loro vecchi.

“La cena è finita, proseguite in pace con le vostre vite”, sembra salutarci alla fine Božidar Stanišić, invitando il lettore a curiosare e forse a farsi ingolosire dagli “avanzi” di un paese certamente imperfetto, simbolo di insanabili contraddizioni, ma anche esempio di una civiltà del rispetto e della comprensione per l’altro – dicasi “civile convivenza” -, oggi decisamente fuori moda.

Valerio Di Donato
Valerio Di Donato, giornalista e scrittore. Ha lavorato a lungo al "Giornale di Brescia", occupandosi di politica interna e estera approfondendo in particolare le vicende dell'area balcanica. Ha pubblicato due libri: "ISTRIANIeri. Storie di esilio", uscito nel 2006 con "Liberedizioni" di Gavardo, una serie di racconti di vita vissuta concernenti la storia degli esuli giuliano-dalmati e non solo. Nel 2021 ha esordito nel romanzo storico con "Le fiamme dei Balcani", per i tipi di "Oltre edizioni" di Sestri Levante.

3 COMMENTS

  1. Treviso 15 05 2023 – Ho letto con grande interesse la tua recensione. Purtroppo rimango pessimista sulla possibilità di creare un clima di vera rappacificazione tra le varie etnie nella ex Yugoslavia. La conflittualità tra i popoli balcanici ha radici lontane…

  2. Nel libro di Stanisic non si parla, infatti, di riappacificazione. Lui si limita, con maestria letteraria, a far emergere i migliori “avanzi” dell’ esperienza (ex) jugoslava, che sopravvivono fra gli esuli soprattutto della Bosnia. Persone che non hanno condiviso la deriva nazionalistica del loro Paese. Nella maggior parte di loro è rimasto il culto del “buon vicinato”, il rispetto insomma delle altrui diversità (lingua, idee, tradizioni, religione). Non c’è spazio per facili illusioni, guardando al domani.

  3. Mi ha così incuriosito che ho cercato di acquistarlo subito. Purtroppo non esiste (ancora spero!) in ebook ed a casa mia non ho più posto per i vecchi cari cartacei… Mi riprometto di ricontrollare!

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