La maledizione dei serbi nasce dalla riesumazione di un mito. Il mito del Kosovo. Mito eroico. Poiesis della nascita della nazione serba. Mescolando storia e leggenda – una tragica seppur valorosa sconfitta militare subita il 28 giugno 1389 dalle milizie cristiane guidate dal principe Lazar, cantata ai posteri come una grande vittoria morale sull’esercito turco del sultano Murad che dilagava nei Balcani -, Slobodan Milosevic riuscì, esattamente seicento anni dopo, giorno di San Vito, a indicare al suo popolo la via del riscatto nella tempesta identitaria del post-comunismo. Con l’inconfessabile obiettivo di costruirsi anche un ottimo pretesto per muovere guerra agli ansiosi secessionisti sloveni, croati e bosniaci, fino a un attimo prima “fratelli jugoslavi”, dichiarando i serbi vittime di complotti stranieri e di secolari ingiustizie e soprusi.  Un’illusione propedeutica al suo progetto di Grande Serbia, da realizzare inglobando territorio “ovunque viva un serbo”, che pareva tramontata per sempre con la morte per nulla gloriosa di Milosevic, in un carcere del Tribunale Penale Internazionale dell’Aja l’11 marzo 2006, alla vigilia della condanna per crimini di guerra e contro l’umanità. Invece, se la favola del popolo eletto si è miseramente dissolta, la mistica della “culla della nazione” nel Kosovo disseminato di antichi monasteri e chiese ortodosse, resiste ancora. Il mito appare – a dire il vero – stanco, sbiadito, più di quanto le recenti fiammate scioviniste nel Nord dell’ex provincia fattasi non consensualmente Stato, lascino immaginare, ma resta pur sempre un’arma pericolosa. Il cerino che può innescare un nuovo incendio nei Balcani. O, per riprendere le parole con cui un dissacrante scrittore serbo come Danilo Kiš dipingeva il nazionalismo, esso può diventare “un pugnale puntato alla schiena del popolo”.

Il testimone, o meglio il manico del pugnale ideologico, è passato con uguale cinica disinvoltura dall’ ex Volpe dei Balcani al suo ex apprendista stregone, Aleksandar Vucic, dal 2017 presidente e padrone assoluto della Serbia. Accolto dalle diplomazie e dai media occidentali come un “riformatore” e un convinto “europeista”, pochi hanno voluto riflettere sull’ambigua biografia del personaggio, già zelante ministro dell’Informazione (ridotta a becera propaganda) nominato da Milosevic in un governo che, nel 1998, si apprestava a regolare una volta per tutte i conti con gli odiati albanesi kosovari. Odiati, perché ingombrante maggioranza etnica (due milioni contro duecentomila serbi, oggi ridotti alla metà dalla contro-pulizia etnica albanese e privi del potere incontrastato di un tempo) nella terra dei padri. Odiati, perché rivendicavano l’indipendenza, dopo aver vanamente chiesto di recuperare solo l’antica autonomia loro concessa da Tito e di porre fine a un opprimente stato di polizia, distintosi nella persecuzione aperta degli oppositori, e in violenze e soprusi di ogni genere verso le popolazioni albanesi.  

Abbiamo visto come andò a finire: una guerra perduta contro la Nato, nel 1999. Il dispiegamento di un poderoso contingente internazionale dell’Alleanza Atlantica, presente anche l’Italia, ancora oggi determinante nel mantenimento di una “pace nell’odio” fra le due parti. La dichiarazione unilaterale di indipendenza il 17 febbraio 2008, non riconosciuta da Belgrado e da una manciata di paesi europei con problemi di potenziale o reale irredentismo interno (Spagna, Grecia, Cipro, Romania e Slovacchia). L’instabilità continua.

La premessa è importante per capire quanto sta accadendo in questi giorni in Kosovo, pericolosamente vicino a una nuova guerra che rischia di riportare la Storia indietro di trent’anni, e di stringere l’Europa fra due fuochi: Ucraina e Balcani. Sarebbe troppo lungo ricordare qui tutti i complicati anelli di una così aggrovigliata catena geopolitica, che unisce la protesta dei serbi di Mitrovica (la Berlino del Kosovo, divisa in due dal fiume Ibar) e degli altri comuni del Nord dove sono maggioranza, dopo l’elezione ritenuta “illegittima” dei sindaci albanesi, agli scontri con la polizia kosovara chiamata dal premier Albin Kurti a proteggerne il regolare insediamento, e al conseguente intervento dei militari Nato della KFOR costato il ferimento di 34 di essi (tra cui 14 alpini italiani).  Nessuno o quasi – pochi scarni lanci da parte di qualche agenzia di stampa – ha invece raccontato e dato conto delle quotidiane oceaniche manifestazioni popolari contro il presidente Vucic, che vanno avanti ininterrottamente da quasi un mese. Da quando, cioè, la misura della pazienza e della tolleranza dei cittadini belgradesi ha raggiunto il colmo. Nel paese un tempo guida della rispettata Jugoslavia di Tito, spadroneggia un sistema affaristico-clientelare della politica e dell’economia che arricchisce pochi oligarchi e affama il popolo, zittendo o intimidendo i mass media e asservendo il sistema giudiziario. L’Occidente, come da sua inveterata abitudine, finge di non vedere e sostiene l’attuale leadership, abilissima nel mostrarsi ufficialmente filo-europea e comportarsi nei fatti da infida pedina filo-putiniana e filo-cinese. Una situazione sopportata in silenzio da quel che rimane di una società civile frustrata e ridotta all’impotenza. Fino a quando, ai primi di maggio, un ragazzino di tredici anni non è entrato armato di pistola in una scuola della capitale e ha ucciso a sangue freddo otto coetanei e un adulto. Una strage in stile yankee, emulata due giorni dopo in una cittadina poco lontano, dove un giovane di 21 anni ha sparato da un’auto con un’arma automatica, provocando altri otto morti e tredici feriti.

Due episodi non collegati fra loro, ma sintomi entrambi dell’altissimo livello di violenza affermatosi nel paese, dell’abnorme circolazione delle armi e di un disagio giovanile che appare in evidente crescita. E’ a questo punto che la maggioranza silenziosa dei cittadini, almeno nella capitale, ha deciso di scendere nelle strade sulla scia dello slogan “La Serbia contro la violenza”, per esprimere tutto il suo malcontento verso Aleksandar Vucic, e reclamarne le dimissioni. “Vucic, vai via”! “Vucic, la Serbia è stanca di piangere”. “Basta con la dittatura”, grida ogni giorno una folla straripante (decine di migliaia di persone). Il presidente, a 53 anni, da consumato autocrate, ha giocato la carta delle contro-manifestazioni “patriottiche”, sulla falsariga delle adunate-farsa ordinate da Putin in Russia contro i “nazisti ucraini”. L’unica che è riuscita finora a organizzare, mobilitando gli impiegati pubblici con lo spauracchio del licenziamento, si è risolta in un mezzo fiasco, compromessa anche da un violento e forse premonitore temporale. In difficoltà sul fronte interno, l’ex fedelissimo di Milosevic ha cercato di dirottare l’attenzione sul Kosovo, dove ha sempre alternato bastone e carota. Lo scorso marzo, in un vertice in Macedonia del Nord ha stretto la mano a Kurti (carota), impegnandosi a favorire la normalizzazione delle relazioni serbo-kosovare, in cambio di analogo impegno del suo interlocutore a riconoscere l’”Associazione delle municipalità serbe”, ovvero un’ampia autonomia alle comunità del Nord Kosovo. Oggi, però, lascia mano libera agli hooligans dell’estrema destra nazionalista nella riserva serba del Kosovo settentrionale (bastone).

Chi ci guadagna da tutto ciò? A chi e a cosa serve veramente agitare di nuovo il fantasma del mito identitario tradito ed esasperare gli animi di una minoranza impaurita e isolata, negandole la sicurezza di un autogoverno non conflittuale che potrebbe ragionevolmente attingere al riuscito modello italiano dell’Alto Adige? Quanto pesa e dovrà pesare ancora la doppia ipoteca accesa sui Balcani dal sotterraneo braccio di ferro in atto fra russi e americani, per il controllo strategico del Mediterraneo?

Valerio Di Donato
Valerio Di Donato, giornalista e scrittore. Ha lavorato a lungo al "Giornale di Brescia", occupandosi di politica interna e estera approfondendo in particolare le vicende dell'area balcanica. Ha pubblicato due libri: "ISTRIANIeri. Storie di esilio", uscito nel 2006 con "Liberedizioni" di Gavardo, una serie di racconti di vita vissuta concernenti la storia degli esuli giuliano-dalmati e non solo. Nel 2021 ha esordito nel romanzo storico con "Le fiamme dei Balcani", per i tipi di "Oltre edizioni" di Sestri Levante.

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here