Che faccia farebbe un impiegato di banca se, il giorno dell’appuntamento per richiedere l’apertura di un Conto Corrente, ci presentassimo con una borsa di sale? La sua reazione dipenderebbe probabilmente dal suo livello di cultura generale, dal suo senso dell’umorismo e dal livello di stress lavorativo che ha dovuto affrontare durante la settimana. Eppure, da un punto di vista puramente etimologico e storico, avremmo le nostre ragioni. Sono passate decine di secoli da quando i soldati dell’Impero Romano ricevevano insieme allo stipendio il “salarium”, una speciale gratifica (con un termine moderno potremmo chiamarlo un benefit) per l’acquisto oppure per l’uso del sale, risorsa preziosissima per la conservazione dei generi alimentari.
Al giorno d’oggi il sale è stato ormai sostituito dal denaro digitale, numeri su uno schermo gestiti attraverso transazioni telematiche, ma il principio rimane lo stesso. E con esso rimangono gli stessi i problemi. Uno dei più importanti, se non il più importante, è quale sia il giusto equilibrio (qualora questo esista) tra il salario medio dei lavoratori e il costo medio dei beni di sussistenza. Una delle manifestazioni più diffuse di questo tema è: è necessario avere un salario minimo definito dalla legge?
Sfortunatamente a questo punto il dibattito, già di per sé tecnicamente complesso, diventa spesso ancora più ostico per l’entrata in scena di posizioni ideologiche intransigenti. Cio’ vale per entrambi gli estremi dello spettro politico-ideologico moderno: i cultori del libero mercato radicale sostengono che il problema semplicemente non esiste, poiché il mercato è un’entità capace di autoregolarsi fintanto che le parti che operano in esso hanno piena libertà di azione; all’opposto i sostenitori di un’economia centralizzata e pianificata sostengono la necessità di una definizione univoca, calata dall’alto e indiscutibile tanto dei prezzi quanto dei salari. Se poi qualcuno si ricorda di menzionare che il principio della “giusta retribuzione” è presente addirittura nella Bibbia, la discussione rischia di non avere fine.
È tuttavia importante cercare di capire questo tema in maniera più oggettiva possibile, poiché le sue conseguenze vanno a toccare la vita di tutti noi. Il problema sorge principalmente dal fatto che la nostra società si basa su un sistema economico misto, vale a dire gestito in parte dall’iniziativa privata in parte dall’intervento pubblico. Quali sono tuttavia i criteri che determinano quale di queste due forze deve intervenire: quando? In altri termini quali sono i limiti e le frontiere? Poiché la risposta a queste domande non è affatto chiara, ci troviamo di fronte a situazioni come quella attuale, in cui molte parti politiche chiedono al Governo centrale di intervenire nello scenario economico fissando per legge i livelli salariali. I lati positivi teorici di un tale intervento sono facilmente intuibili, anche e soprattutto da un punto di vista empatico: fine del lavoro sotto pagato, fine dello sfruttamento, maggiore potere di acquisto per le classi sociali più disagiate.
I lati negativi, anch’essi teorici, sono meno direttamente intuibili ma altrettanto importanti. Cosa succede se il Governo interviene sui livelli salariali senza aver ponderato bene tutte le conseguenze? Immaginiamo, semplificando, uno scenario più che comune per il Veneto: un piccolo Imprenditore con 10 dipendenti. Il Governo ha deciso di alzare il livello dei salari, pertanto l’Imprenditore deve adeguare gli stipendi dei suoi 10 dipendenti. Poiché l’azienda gestita dall’Imprenditore non genera profitti particolarmente alti, non ci sono riserve finanziarie per coprire l’aumento degli stipendi. Di conseguenza, l’Imprenditore ricarica il maggior costo sul prezzo dei propri prodotti, trasferendo quindi il nuovo carico finanziario sui propri clienti. Nella tutt’altro che realistica ipotesi in cui i clienti accettino di buon grado questo aumento dei prezzi, si potrebbe pensare che l’effetto domina sia concluso cosi’. Ma dal momento che anche quei clienti hanno probabilmente a loro volta dipendenti e costi, anch’essi procederanno ad aumentare il prezzo delle proprie prestazioni e cosi’ via e cosi’ via, innescando una spirale in cui il punto di atterraggio di questi continui “ricarichi” è l’innalzamento dei prezzi delle materie prime e dei generi alimentari. E chi soffrirà le conseguenze di cio’ più di tutti? I 10 dipendenti sopra citati, e insieme a loro tutte le altre migliaia e migliaia di lavoratori che nel panorama economico hanno poca o nessuna leva di intervento diretto per tutelare la propria posizione.
Come detto si tratta di una spiegazione estremamente semplificata, che tuttavia vuole dare il senso dell’impatto che certe decisioni possono avere, e vuole rimarcare ancora una volta come tematiche cosi’ rilevanti non possono essere affrontate semplicemente con un approccio ideologico. L’ideologia guarda al benessere nel futuro, ma va accompagnata con l’onestà intellettuale che descrive il sacrificio nel presente.
Bell’articolo, soprattutto per la chiarezza che rende comprensibile a tutti una materia difficile come l’economia. Io, da medico ambientalista, segnalo solo come le forze in campo non siano pari, rappresentate ognuna dalla propria “posizione ideologica”, perché le “classi sociali disagiate” sono sempre destinate a soccombere rispetto al potere economico. In materia di riscaldamento globale e di salute, poi, è tutta l’umanità ad essere classe sociale disagiata, perché il potere economico basato sui combustibili fossili non è disposto a cedere nulla.
In materia di salute è stato scritto autorevolmente: “Qualunque contenuto di diossina è segno di contaminazione, anche se al disotto dei limiti di legge. E sui limiti dobbiamo fare il solito ragionamento. Sono compromessi tra interessi economici e istanze di salute, in cui la salute tende a perdere sempre o quasi sempre.”