Mi fregio di avere un’amica cara, di origine albanese. Una giovane scrittrice che ha dei numeri. Ogni tanto, inizialmente, mi sottoponeva dei testi di sua ideazione, in cerca di qualche modesto consiglio dal barboso recensore che qui scrive. Erano storie nelle quali l’autrice non difettava certo di genio, o anche di una vivace immaginazione per vocazione, ma parlavano inevitabilmente un linguaggio quasi di favola, sollevato mezzo metro da terra. Quelli delle favole, o dei racconti rosa sono generi di tutto rispetto, per carità, ma dentro di me cantavano da succedanei per qualcos’altro che aveva bisogno di esplodere.
Mentre approfondivamo la nostra conoscenza, per così dire letteraria ma anche personale, con discrezione finalmente si apriva un pertugio, da cui emergevano con pudore lacerti di vita vera, talvolta strazianti. Nel proprio forziere delle memorie inenarrabili nascondeva un fardello di soprusi patiti.
Ecco, finalmente, una voce autentica e profonda aveva l’occasione di rivelarsi: fu un percorso che non rinunciava alla creazione originale, svelava episodi toccanti. Il passato le restituiva la dignità del pianto, ma anche dell’orgoglio: l’eroismo del padre vessato, del nonno avvelenato in un carcere. E la sua piccola grande lotta di ragazzina alle soglie della caduta del regime.
A me, parallelamente, ha iniziato a offrire una specie di delicato percorso di… educazione albanese. Quel poco che sappiamo tutti della recente storia di quella terra vicina un braccio di mare, spesso si riduce in modo buffonesco a immaginarla alle prese con un dittatore da operetta che ha stretto tra le unghie la propria gente per mezzo secolo. Di là dell’Adriatico abbiamo sogghignato per gli oltre centosettantamila ingenui bunker, costruiti per proteggere l’Albania da un’ipotetica, quanto improbabile invasione nemica: una immensa fortezza Bastiani più reale di quella descritta da Buzzati nel suo Deserto dei tartari. Se gli echi di una guerra d’occupazione potevano risuonare vicini alle orecchie del suo dittatore negli anni quaranta, diciamocelo: chi se la filava l’Albania, già negli anni ’80? Il tetragono comunista Enver Hoxha aveva fatto terra bruciata intorno a sé, litigando praticamente con tutti i compagni: prima con Tito, poi con i sovietici e infine anche con i cinesi. Tutti li liquidava come esponenti traditori dell’Idea sacrosanta, definiva i loro stati “socioimperialisti”: l’unico originale paese comunista incorruttibile sulla faccia della Terra rimaneva l’Albania. L’unico dichiaratamente, pervicacemente ateo al punto da perseguitare i residui fedeli. Chiuso nei propri confini piombati, noi italiani abbiamo ignorato le disgrazie di un territorio con cui, da sempre (e non solo dai tempi del Mascellone fascista) avevamo allacciato rapporti stretti. Ma in anni più recenti, dimenticati i legami, al nome di albanese generalmente si associava con leggerezza infamante quello di una qualche banda spietata e di ragazze costrette a battere. Il pregiudizio faceva da comodo substrato, nell’ignoranza, per compiere vere ingiustizie a carico di un popolo laboriosissimo e buono che ha saputo integrarsi perfettamente qui da noi. Il nome “Albania” stesso deriva dal precedente nome Arbania e si forma col nome di Ar/ari, che significa oro, e il verbo antico bàne (fare). Un nome prestigioso che riporta a competenti artigiani dell’oro e dei metalli preziosi.
Qualche tempo fa, ospite a casa dell’amica, ho incontrato il padre. Un altro passaggio della mia lezione di educazione albanese. Piano piano si dipanava una storia dolente, raccontata con la passione di chi cerca una sponda di comprensione. Parlava di intere famiglie espropriate per l’unica colpa di non essere dei miserabili, di insegnanti degradati e spediti a lavorare nei campi. Di ignoranza al potere. Di occhiute spie della Sigurimi dovunque, per stanare i presunti nemici di un comunismo di facciata, arido, spietato. Vicende di gente imprigionata per aver osato dire che mancava il pane: il Partito sbandierava uno stato integerrimo in continuo progresso di vittorie economiche, nella tragedia di gente che doveva comunque dichiararsi felice della propria condizione precaria, mentre la televisione di stato oscurava i programmi occidentali e incensava il grande Enver Hoxha. Impressionante: il padre della mia amica non aveva letto sui libri tali testimonianze, le ha vissute e sopportate sulla propria pelle.
L’amica generosa ogni tanto si sforza, per affetto, di capire il mio orientamento che si rivolge comunque preferibilmente con benevolenza verso sinistra. Che ci posso fare, se credo in un socialismo libertario sul modello scandinavo? Se mi sono amareggiato per l’assassinio di Allende? Se mi incazzo verso chi non sa tutelare i raccoglitori di pomodori al sud? Se vedo scivolare la povera gente, a votare per la destra dei grandi capitalisti, illusa di essere difesa da esponenti affini a Berlusconi o peggio? Se vorrei preservare L’Amazzonia e anche l’Italia da fanatici come Bolsonaro? Se giudico Trump un rozzo prevaricatore?
So che lei, con qualche suo amico ustionato dal comunismo becero, mi difende lealmente dicendo che “non tutti quelli della sinistra sono cattivi”. Com’è strano il mondo: noi di quella tendenza ci confrontiamo con pari nausea verso i fascisti. Stessa merce, robaccia.
Uno di questi giorni mi ha fatto un dono: un libro-ossessione. Lo scrittore è Visar Zhiti, il titolo è eloquente: Sulle strade dell’inferno. Sottotitolo: la mia vita nel carcere di Spaç. Sono poco meno di seicento pagine fitte. Per guastarsi le ferie è l’ideale. Come si può sopportare di trovarsi a rispondere e difendersi, in un processo kafkiano, per aver scritto delle poesie? Non delle poesie smaccatamente politiche, no. Se chi ti accusa ha deciso che sei un nemico del popolo, può persino supporre che quando evochi l’immagine di un bel sole che tramonta, tu alludi senz’altro al tramonto del vero socialismo. Quello comunista albanese. Finisci in carcere: una condanna durissima, in compagnia dei topi. Per non impazzire, in semibuio, ti metti a scrivere nel cervello, senza carta né penna, poesie nuove.
E dopo infiniti logoranti interrogatori ti spostano in una colonia penale. A lavorare nelle miniere di pirite in condizioni inammissibili: oh, oh! Niente da invidiare, per crudeltà, ai campi di concentramento nazisti. Lo scrittore Zhiti ha descritto la sua pena: la prosa è maledettamente poetica, talvolta sbarella in flussi di coscienza che fatichi a seguire, ti pare d’impazzire. L’allucinazione ogni tanto ti riporta coi piedi per terra: nella neve bianca nel sangue nell’amicizia sospettosa per il timore di esserti involontariamente confidato con una spia. Come sopravvive un poeta? Scrivendo i propri versi vietati, rischiando di aggiungere altri decenni di galera ai decenni già assegnati per colpa (o merito) della Poesia. Maledizione, quando stai per cedere al male che ti chiude lo stomaco e chiuderesti il libro, ti soccorrono e subito ti uccidono frasi come queste che seguono. È lo struggimento di chi esce dal buio della miniera, con gli occhi arrossati, ed è ancora notte profonda:
Così logori, anneriti e sudati, uscimmo dalla notte sotterranea di pietra, una notte violenta, penzolante, senza vita, verso la vera notte di mezzo globo, incommensurabile: difficile credere che potesse provare dolore per noi. Le stelle, come indebolite, con scintillante infelicità sembravano portate via dal vento, e alcune di loro erano impigliate nel filo spinato come sospiri ghiacciati.
A leggere queste testimonianze sovviene il pensiero dei tanti intellettuali sacrificati al moloch del potere sanguinoso e stupido. Pensi anche alla sordida connivenza delle masse, destinate a servire per viltà o interesse i mostri di ogni tempo. Fa rabbrividire l’immaginare che il ciclo disgraziato si replica nelle epoche, in luoghi diversi: gli sterminatori di intelligenze, i cattivi attorniati dalle proprie api operaie si circondano di ideologie. Il bene promesso dalla teoria si corrompe a contatto con un’umanità spietata. È questo il nostro destino?