In questo singolare libro, il cui titolo Razos* si rifà alla grande tradizione trobadorica, che sappiamo essere la radice della letteratura romanza ed europea, Lello Voce s’inoltra, come pochi altri oggi sanno ‘fare’, grazie anche e soprattutto all’esperienza maturata nello spoken word e nella spoken music, in quella terra di nessuno che sconfina tra prosa e poesia, per riprendere una plurisecolare riflessione sulla parola, sulla complessità della pulsione ritmica del pensiero, sul silenzio eloquente che lo avvolge.
Sembra quasi un ritorno vichiano alle origini medievali, sotto le mentite spoglie d’un novello Uc de Saint Circ, egli si rimette alla ‘caccia’ della lingua della poesia, la panthera redolens, la cui traccia non è rinvenuta (ammonisce il Dante del De vulgari eloquentia) in nessuna particolare lingua o dialetto, pur senza tregua sfiorando sia questo che quella: le parole, infatti, «sono finte file, furbe feste del senso, | strade cieche […] || si annodano sciogliendo e ordiscono calappi» (Madrigale 1), eppur ‘profumano’ sotto il bronzino battere degli ictus, fanno intuire uno stretto sentiero che fluisce per una sintassi rigorosamente geometricamente labirintica. Ma proprio quando la coda della pantera sembra a portata di mano (A. Zanzotto), eccola svicolare e scomparire per «farsi fumo e restare sospesa sul foglio» (Razo 4).
Essa, infatti, qualsiasi parlata impregna del suo profumo, ma in nessuna giace (Dante): appare solo «per un istante breve quanto un respiro, volteggiando sui suoni, strisciando lungo il suo segno», per improvvisamente disperdersi per l’ovunque «in un indistinto brusìo, un formicolante rumore, scabro e confuso» (Razo 13). Non il risultato, dunque, interessa, ma il processo, la caccia «senza smettere mai di respirare ritmicamente» (Razo 7), il diuturno riproporsi del pensiero della lingua, di un inseguimento i cui esiti sono sempre indecisi e mai immaginabili.
In Razos, Lello Voce sembra rivolgersi alla stessa struttura della lingua, che è attraversata, come il brivido che corre il dorso della preda, dalla tensione tra il piano del nome e quello del discorso, il lessico e la sintassi, la voce e il silenzio. E tale tensione si configura geometricamente nel duplice eptadecagono, quello dei diciassette testi in prosa a fronte degli altrettanti madrigali, tanto loquaci i primi, quanto muti i secondi. Ne emerge un libro solitario che è sì un congegno bifacciale «che veste il corpo della poesia, gettarlo non lo farà nudo» (Razo 7), ma è puranche attraversato da una profonda irricomponibile cesura che rende la relazione poeta-poesia un’inesauribile reciproca ricerca ansiosa: «ingrata la tua lingua e il mio azzardo, | più ingrata è la colpa che ci ringhia» (Madrigale 9).
Se, per ventura, avverte Lello Voce, siffatto libro fosse allogato nello scaffale, le «sue frasi, le sue parole, le sue lettere si espanderebbero ai libri che le saranno vicini, come fossero virus, o batteri» (Razo 11), stravolgendone senso e significati, trame e personaggi, storie e geografie, numeri ed equazioni… Tale è la sua forza perturbativa.
Paradossalmente, poi, per quanto il poeta (o il lettore) colga improvvisamente la nudità della musa al semplice schiudersi delle pagine del libro, non è quest’ultima ad accecarlo, come proclama il mito, semmai è lei da sempre la cieca che «lo cerca costantemente, tenta senza posa alcuna di rivolgersi a lui, di raggiungerlo ovunque egli sia, senza trovarlo» (Razo 6). Ecco perché le sue membra sono sempre disperse (R. M. Rilke), come quelle del Dioniso-Zagreo dilaniato con spada tremenda dai Titani, spetta al poeta errante, per quanto egli stesso dilacerato, tentare di ricomporle, farne di nuovo «suono secco, sordo || odore già svanito, lingua che mordo, | sangue, dente, tenerezza e voce e male» (Madrigale 13).
Ecco, dunque, all’incrocio tra tradizione e sperimentalismo, tra rischio e persistenza, come in Lello Voce riprende forma compiuta l’eptadecagono, che è nel contempo sia la meraviglia creativa del pensiero dialettico che il rigore inarcato del ritmo del madrigale.
* In alcuni canzonieri provenzali del XII-XIII sec., la razo (pronuncia razó ‘ragione’) è una breve introduzione ad una lirica trobadorica al fine di illustrarne il contenuto, esporre l’occasione che ne ha indotto la composizione, o suggerire l’identità dei personaggi a cui l’autore allude nel contesto.
Madrigale 4 Le lettere, gli alfabeti e i segni muti le carni crude e i gesti già avvenuti afflitti, smemorati, distratti, consolàti, Immobili, lisci, impressi, inquadernati come coscritti, burbe, accenti caduti in fila, coperti d’inchiostro, feriti a morte, a mano tremante, ad arte, riconosciuti: lettere tolte a sorte dal sillabario delle aorte.