È il primo di novembre, entro nel cimitero di Mogliano. La funzione inizia alle 15 e raggiungo per tempo, nella parte posteriore, le tombe dei miei cari. Mi posiziono nei pressi e cerco di raccogliermi nei miei pensieri. Operazione difficile: circolano molte persone, chiacchierano fra di loro a voce alta, che s’impenna quando, dopo tanto tempo, si ritrovano fra amici e conoscenti. Attendo l’inizio della commemorazione, la confusione s’interromperà, penso. Don Samuele, il parroco del Duomo, dà inizio ai “cinque misteri”. Ci siamo, mi dico. Con mia sorpresa però non solo le chiacchiere continuano nell’indifferenza da parte di molti, ma aumentano di volume. Sicché la voce di don Samuele viene inghiottita da un diffuso ciacolaio. Dietro di me c’è un folto gruppo di partecipanti che continuano a scambiarsi battute, ricordi, informazioni, suoni gutturali di sorpresa, risate anche scomposte, conteggi d’età con gli immancabili sospirati racconti di “rogne” personali e l’immancabile motto di consolazione “ma dai, finché se vedemo!”. Credo che don Samuele sia passato al secondo mistero e un uomo di mezza età non trova di meglio da fare che trascinare la scala a rotelle per raggiungere un loculo ai piani superiori, sistemare i fiori e cambiare l’acqua facendo un baccano del diavolo. Ad un certo punto, come per miracolo, si crea una bolla di silenzio generale e riesco finalmente a sentire la voce del celebrante. Ma dura minga! A poco a poco si rialzano nuovamente le voci, si diffondono altre chiacchiere, chiassosi incontri, esclamazioni stridule.
Ora lungi da me stigmatizzare questi comportamenti, è una cosa che non mi compete anche se li ho vissuti con molto fastidio e sconforto. Solo qualche considerazione.
C’è un primo problema: non tutti, ma molti non percepiscono più il rispetto come regola primaria di una comunità civile. Non si curano del contesto e degli altri, vivono a modo loro, come fossero nel salotto di casa propria.
Ce n’è un secondo: non tutti, ma molti, hanno smarrito il valore della ritualità, quella dimensione che crea forza interiore e coesione sociale, per come storicamente si è espressa. Il problema è che la loro indifferenza invade il campo altrui, importuna chi ancora la vive come un risvolto esistenziale.
Un’altra annotazione: non tutti, ma molti non sanno più concentrarsi, vivere il raccoglimento come un momento indispensabile per ritrovarsi nella memoria e rigenerarsi nella mente. Non sopportano il silenzio, non lo reggono, hanno bisogno di stordirsi, anche in cimitero.
E mentre esco dal camposanto, mi viene naturale rammentare le scene della sera prima, la sera di Halloween, con le piazze e le vie della nostra città piene di bambini-scheletri eccitati e scomposti inseguiti da genitori-animatori esausti con gli occhi cerchiati di rosso.
Memo finale: sono gli adulti ad essere stati i principali protagonisti di queste due ricorrenze (non tutti ma molti), coloro cioè che con il loro comportamento dovrebbero insegnare ai bambini cosa è bene e cosa è male.
Forse tornerà utile proseguire la riflessione.
Caro Lucio
Ho letto con un misto di conforto e sconforto le tue belle righe.
Sono appena uscita dal cimitero di Campocroce completamente deserto e immerso nel vento e l’odore della pioggia. Sentire i propri pensieri e il peso della nostalgia per le persone perdute è necessario per stabilire quel dialogo interno che seppur doloroso rende più fruttuoso il nostro percorso di vita .
Ti ringrazio.
Doriana
Condivido completamente la riflessione. Ormai anche il camposanto è diventato luogo di ostentazione e saltuario ritrovo. Se la cosa è sopportabile durante i giorni “normalei” diventa condannabile durante le funzioni celebrative. Il fatto poi che non siamo più in grado di stare in silenzio /riflessione, lo trovo atroce, viviamo di corpo esposto e non di pensiero. Conta solo l’apparire e spesso non è nemmeno consono.