La rigogliosa campagna veneta di un tempo sta lentamente sparendo. Il Nord Est per far posto alla “logistica” ha perduto 1671 ettari di suolo agricolo nel periodo 2006-2022 e di quei 1671 ettari ben 772 ettari li ha perduti il Veneto. Si sta profilando la “seconda edizione” del “miracolo del Nord-Est”: ulteriore “contrazione della superficie agricola” per far posto, questa volta, anziché ai capannoni, ai nuovi “poli logistici”. Purtroppo, quel che resta della campagna veneta sta per essere “miracolato” dal “cemento” un’altra volta. Le ragioni addotte per giustificare il proliferare della “logistica” sono legate alla maggior “funzionalità” delle strutture industriali e commerciali di grandi dimensioni, specie se “collocate” in prossimità delle grandi vie di comunicazione. Il rapporto Ispra 2023 ci dice che, fino ad oggi, il 63% del consumo di suolo agricolo imputabile alla logistica è riferito a nuove grandi strutture destinate ad “attività produttive industriali” e ad “attività logistiche” per la gestione e il trasporto delle merci, mentre il restante 37% è dovuto all’e-commerce e a nuovi centri per la distribuzione di generi alimentari e agroalimentari, centri commerciali, outlet, ecc. Da un lato, “mega processi di ristrutturazioni e accorpamenti industriali” portati avanti da grandi gruppi economici allo scopo di aumentare i profitti riducendo i costi del magazzinaggio, del trasporto, dell’amministrazione, del personale, ecc. Il nuovo “polo logistico e centro direzionale” della Marchiol, ad esempio, occupa 40.000 metri quadrati, lungo la Treviso mare, in prossimità del casello di Meolo e comporta la chiusura degli attuali tre hub di Portogruaro, Mestrino, Villorba e i nuovi posti di lavoro se li sognano e li scrivono i “narratori mediatici mainstream” e li sbandierano sindaci ignari del valore economico ed ecologico della loro terra fertile.
Dall’altro, la “colonizzazione economico-produttiva”, portata avanti principalmente da Amazon, che sottrae alle popolazioni locali la terra su cui coltivare cibo e infrastrutture verdi: anche in questo caso, in cambio della promessa di qualche posto di lavoro. Mi chiedo come fanno i sindaci, con l’avvento dell’e-commerce, in seguito al quale muoiono posti di lavoro, relazioni, storie, identità economiche e culturali locali, a non riflettere sulle difficoltà di piccoli artigiani, piccoli negozi, piccole imprese a stare sul mercato, magari con posti di lavoro a norma? Gli amministratori locali e regionali devono proprio stendere il tappeto rosso al cospetto di tali colossi economici? Ma la mole impressionante di serrande abbassate e di vetrine spoglie dei negozi dei nostri paesi e delle nostre città le vedo solo io? Come fosse naturale, in Italia, a proposito di posti di lavoro, la chiusura in 10 anni di 500.000 aziende agricole: come se queste non significassero, oltre che presidio della nostra “sovranità alimentare”, 500.000 e più posti di lavoro.
Che fare? Anche se con estremo e colpevole ritardo bisogna “fermare” qualsiasi nuova “infrastruttura stradale” e “autostradale” che sta favorendo l’insediamento di nuove strutture logistiche, industriali e commerciali nei loro pressi. Poi, per “fermare” nuovi “scempi urbanistici”, bisogna utilizzare le “superfici” e le “cubature” dei capannoni esistenti, magari attraverso l’introduzione di “varianti urbanistiche grigie” (il colore del cemento) che favoriscano l’insediamento dei poli logistici all’interno di zone industriali con spazi e strutture che possano soddisfare il requisito del dimensionamento da loro richiesto e spostando le lavorazioni che si svolgono in tali zone industriali in altre aree produttive dove il requisito del dimensionamento non sia una condizione indispensabile. In concomitanza con questa “redistribuzione degli spazi produttivi industriali e commerciali” gioca un ruolo primario l’altro processo di rammendo ecologico del territorio: “l’adattamento funzionale” dei “capannoni industriali inutilizzati”. Bisogna che la politica cerchi di “governare” e “limitare” il fenomeno di accaparramento di suolo agricolo per nuovi poli logistici. Senza dimenticare che la filosofia che sta dietro lo sviluppo della “logistica industriale” comporta l’abbandono di altre strutture produttive ritenute non più funzionali. Ma se la “foga cementificatrice” indotta dalla globalizzazione rompe il vaso del “miracolo del Nord-Est” bisogna anche pretendere dagli amministratori un minimo di etica nel raccogliere i cocci: i “capannoni inutilizzati”.
La politica in Veneto lo può fare, sia in modo “proattivo”, favorendo l’interscambio di spazi industriali già cementificati, sia in modo “normativo”, cancellando una delle sedici deroghe della vergognosa legge regionale sul suolo della regione Veneto, quella dello “Sportello Unico per le Attività Produttive”, che non sottrae dal plafond dei 18257 ettari consumabili entro il 2050 il consumo di suolo per nuovi poli logistici, nuovi capannoni, nuovi supermercati.
In Veneto ci sono 92.000 capannoni, distribuiti in 5679 aree produttive (zone industriali e artigianali, piccole e grandi): è come se in ognuno dei 541 comuni veneti ci fossero 10 aree produttive. La superficie totale occupata dai capannoni in Veneto è di 41.000 ettari (410 km2): un capannone ogni 54 abitanti. I dati non sono forniti da un’associazione ambientalista ma da un rapporto del 2019 di Assindustria Veneto Centro che quantifica in 11.000 i capannoni industriali abbandonati: come se in ogni comune Veneto ci fossero 20 capannoni inutilizzati.
In Veneto la politica e larga parte della stessa società civile hanno difficoltà, al netto degli interessi delle solite lobbies delle costruzioni e del cemento, nel comprendere il “fenomeno anti sistemico” del consumo di suolo agricolo con tutte le sue conseguenze ecologiche, sociali ed economiche. Al punto da chiedersi se tale mancanza di consapevolezza, prima ancora di un “problema ambientale”, sia un “problema cognitivo-antropologico”: una specie di “dissonanza cognitiva” tra la percezione della realtà e il conseguente agire umano. Se i sindaci cercassero di misurarsi con la “complessità” dell’attuale fase economica e ambientale a livello globale scoprirebbero la necessità, per il territorio che amministrano, di mantenere i “servizi ecosistemici” di cui hanno bisogno i loro cittadini, nel segno della “vita biologica” al tempo dei cambiamenti climatici: produzione di cibo sano e sovranità alimentare, assorbimento della CO2 e delle polveri sottili, prevenzione delle esondazioni e degli allagamenti, qualità dell’aria e dell’acqua e il loro rapporto con la salute umana, mitigazione della calura estiva, ecc.). Un “problema cognitivo-antropologico” che si sta aggravando e che condiziona lo stesso “approccio umanistico” alla politica intesa come “gestione collettiva dei beni comuni”: un deficit umanistico già denunciato da Andrea Zanzotto quando parlava della scomparsa dell’agricoltura e dell’ aggressione del cemento.