La fine dell’anno 2023 è benvenuta, diciamocelo. Troppe recrudescenze di conflitti mai sanati hanno invelenito il clima e sottratto all’umanità il valore dell’umanità medesima.
Mi soffermavo l’altro giorno sul senso di un documentario in onda su Rai Storia: Io sono Venezia. Si tratta di una concisa ma gradevole, orgogliosa rappresentazione di cos’è stata la potenza di Venezia, arditamente autodefinitasi Serenissima. La bellezza incomparabile della città, come del resto gran parte delle meraviglie artistiche e architettoniche prodotte dall’uomo nel passato, si reggono sul gusto del bello, ma è imprescindibile il ricorso all’espropriazione, ai bottini di guerra, al sacrificio di vite. La manifestazione di grandezza della nostra romantica, incommensurabile Venezia, si regge nella cronachistica celebrativa su due aggettivi che, come pilastri, definiscono in sintesi la sua autorevolezza: una repubblica rispettata e temuta. Non sono aggettivi innocui. Se il primo può alludere ad una saggezza intrinseca, ammantata di bonomia, il secondo svela la natura inquietante su cui essa si basa.
Essere temuti significa generare nei potenziali nemici il senso della giustizia implacabile a cui non potrebbero mai sottrarsi in caso di offesa, ma sottintende anche una capacità prepotente di invadere, di predare, anche di uccidere quando gli interessi nazionali lo richiedessero, in nome della ragion di stato mascherata in salsa di princìpi. La storia si ripete in forme nuove, si ripropone con le medesime discutibili ragioni parziali, dove il diritto e il senso democratico si piegano ad ammettere deroghe illimitate, per certi versi inquietanti. Sbalzati nella modernità contemporanea, in nome di una sovranità “temuta e rispettata” si continuano a compiere carneficine immani, e le motivazioni del più forte prevalgono, in assenza di un inattuabile tribunale universale, equo e condiviso. Provvedano i lettori ad enumerare gli sfregi esemplari che anche questo vecchio anno balordo ci ha fornito in abbondanza.
Ma è tempo di cambiar tono: per associazione di idee, vi propino una mia composizione datata, non so se chiamarla sussiegosamente poesia o, più ragionevolmente, invocazione. La scrissi quando mi trovavo in una condizione di particolare sfiducia. Non mi considero affatto un cattolico praticante, ancorché battezzato. Non ne faccio né un vanto, né un dramma. Non so più che sono, non è importante. Ma non oso definirmi ateo. Probabilmente mi trovo in buona compagnia.
Per questo vi affido i pochi versi, rivolti a un dio senza individuarne i contorni precisi. Per tutti potrà comunque rappresentare almeno lo spirito della Speranza, quello a cui ci si appella nelle situazioni senza sbocco. In fondo, siamo pervasi dallo stesso sentimento illogico che in qualche modo sostiene Sisifo, il mitico dannato padre di Ulisse. Ci sostiene e ci condanna a rotolare continuamente il macigno del vivere duro verso una vetta, verso un’auspicata conclusione di salvezza, salvo vederlo poi precipitare fatalmente giù dalla china.
Ma ricominciamo, perché questa è la nostra natura. Facciamolo con pazienza, brontolando un poco, ma con una dose di fiducia nel futuro: è un’utopia buona e anestetica. Felice 2024!
Confondi in un turbine di vento polveroso la discordia assurda e le macerie precipitate sulle parole inutili e le bocche da fuoco contorte di queste armi disorientate. Fa’ che non siano per sempre velenose le spighe inattese dei campi strinati seminati a morti. Come un mendicante congiungo le palme implorante pioggia che dilavi, o almeno l’illusione del tuo patto opalescente: Oh Signore, ancora, ancora arcobaleno!