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Il diritto di essere nominati corrisponde in qualche modo al diritto di esistere in una società? Di certo ciò che si nomina si vede meglio, e ogni persona ha diritto di vedere nominate correttamente le sue caratteristiche con un linguaggio libero da parole, frasi o toni che riflettano pregiudizi, stereotipi e discriminazioni. Lavorare sulle parole può non risolvere i problemi sociali, ma di certo aiuta a mettere a fuoco iniquità ed emarginazione conseguenti al giudizio di valore determinato dalla cosiddetta “normalità”, laddove il concetto di normalità dovrebbe corrispondere a un mero dato statistico.
Da qualche tempo inclusività e linguaggio inclusivo ricevono l’attenzione che meritano – grazie anche all’impegno e alla visibilità di esperti come la sociolinguista Vera Gheno – e sono molti gli enti, associazioni, istituzioni e aziende che hanno elaborato delle linee guida a questo riguardo (Istituto Superiore di Sanità, Amnesty International, Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici, Agenzia delle Entrate… solo per nominarne alcuni).
Cos’è quindi il linguaggio ampio, e perché preferire questa definizione a linguaggio inclusivo? Perché anche il termine inclusività ha dei limiti, presupponendo che ci sia qualcuno che si trova nella posizione di includere e qualcuno (gli inclusi) che in questa posizione non è: le persone che possono includere sono quelle considerate “normali”, quelle incluse sono invece le persone “diverse”. Per questa ragione si preferisce parlare piuttosto di convivenza delle differenze invece che di inclusione, e di linguaggio ampio invece che inclusivo.
A partire dall’identità di genere e dall’orientamento sessuale/affettivo, per estendersi a tutte le minoranze intese come etnie, disabilità, neuro-atipicità, religione, età, status, cultura, caratteristiche fisiche ecc., il linguaggio può essere veicolo di rispetto o discriminazione. Possiamo quindi affermare che è importante fare attenzione a ciò che si dice? Sì, basti pensare alla potenza di parole come colpevole o innocente: le parole fanno la differenza, e non è una novità di questi giorni. L’importante è che il piano del linguaggio e quello della realtà stiano insieme per aiutarsi in una benigna circolarità, e non per ostacolarsi a vicenda. Per il bene di tutti.
Grazie per questo interessante articolo. Personalmente non ho mai gradito i termini inclusivo, inclusività, ecc…ampio si avvicina molto di più al concetto di rappresentanza e accettazione della “normale” varietà della specie umana.