SE LA MEMORIA È AL SERVIZIO DELLO STATO

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Non è necessario vivere sotto un’opprimente dittatura per trovare sempre nuove conferme al celebre aforisma di George Orwell: “Chi controlla il passato, controlla il futuro. Chi controlla il presente, controlla il passato”. Lasciando perdere qui i fantasmi del nazismo e dello stalinismo che tanto alimentarono l’immaginazione e lo spirito libertario dell’autore di “1984”, è relativamente facile vedere applicata la massima alla Russia di oggi, incatenata e drogata dal regime di un signore in procinto di autoincoronarsi (parlare di “elezioni” pare eccessivo) per altri sei anni dopo 25 ininterrotti al potere. L’ex agente sovietico del Kgb, è riuscito nell’opera di riscrivere la storia di un grande Paese, e dunque di controllarlo in modo ferreo, vantandone la vocazione e le ambizioni imperiali, anche a spese di vicini riottosi come quei testardi degli ucraini e di qualche impertinente oppositore interno. Solo un personaggio pubblico dalla comicità involontaria e dallo spiccato senso del ridicolo come Matteo Salvini può riconoscervi i tratti di una normale democrazia, sostenendo ad esempio che sulla morte di Aleksej Navalny “la chiarezza la fanno i medici e i giudici russi” (notoriamente liberi nell’esercizio delle loro funzioni) e non certo “noi” occidentali sospettosi e in malafede, convinti come siamo che il mandante sia proprio Vladimir il Terribile, da lui tanto ammirato.

Il compito si fa invece più impegnativo quando l’occhio si sposti su Paesi in cui la democrazia rappresenta qualcosa di più di un fastidioso orpello formale, come è per fortuna il nostro, fondato su una Costituzione limpidamente liberale e antifascista (“la più bella del mondo” veniva definita fino a non molto tempo fa). Più impegnativo, e anche più interessante. Sia perché ci riguarda direttamente, sia perché ci costringe a verificare non solo il grado di libertà effettiva di cui disponiamo, ma anche il rispetto della verità dei fatti da cui traggono origine decisioni politiche e leggi.

Un caso eclatante, eppure sorprendentemente ignorato dalla maggior parte dei media nel suo strisciante riflesso orwelliano, riguarda il Giorno del Ricordo, che si è celebrato il 10 febbraio e si ripete ogni anno, a partire dal 2005.

Eclatante, dal momento che solo due giorni prima della ricorrenza memoriale, la Camera dei deputati ha dato il via libera a una legge proposta dal Senato lo scorso 3 ottobre, per finanziare tutta una serie di iniziative “per la promozione della conoscenza della tragedia delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata nelle giovani generazioni”.

In estrema sintesi, si tratta di un bel pacchetto di 4,5 milioni per il triennio 2023-2025, con cui organizzare “viaggi del ricordo” destinati agli studenti nei luoghi delle foibe, dell’esodo e nelle terre di origine degli esuli, e per migliorare la gestione dei musei a ciò dedicati. Tutto bene fin qui, all’apparenza. Ma nelle pieghe della normativa, frutto evidente del nuovo corso politico italiano, si cela un aspetto inquietante. A denunciarlo, in una lettera aperta ai parlamentari, è stato il 13 ottobre scorso il presidente nazionale dell’Anpi, Gianfranco Pagliarulo. Il rappresentante dell’associazione ex Partigiani, dopo aver letto la norma passata al Senato, si diceva sconcertato del fatto che “la ricerca storica e la formazione delle pertinenti commissioni tecnico-scientifiche siano riservate unicamente ed esclusivamente a associazioni degli esuli più la Lega nazionale di Trieste, tutte associazioni caratterizzate politicamente a destra, e alle quali la legge destina cospicui finanziamenti”. Vengono viceversa esclusi – faceva notare Pagliarulo – gli istituti, le fondazioni e associazioni che da anni in Friuli Venezia-Giulia si occupano con rigore scientifico di ricerca storica. Il testo, che modifica in modo sostanziale la legge 92 del 2004 istitutiva del Giorno del Ricordo, deve essere ora rivotato definitivamente dal Senato, per recepire gli aggiustamenti introdotti dai deputati. Per la cronaca: in entrambe le Camere il provvedimento è stato licenziato con il voto favorevole anche di Pd e M5s. Una magnanimità politica difficilmente comprensibile.

E qui torniamo alla riflessione iniziale: è, o non è, possibile supporre che la profezia del Grande Fratello formatore e controllore di menti plagiate riguarderà anche quello che – a parole – avrebbe dovuto costituire un “patrimonio comune” di tutti gli italiani, senza distinzione di partito o di idee? La domanda apparirà a qualcuno offensiva e ad altri ingenua. La questione tuttavia resta. Non è spirito di parte, ma constatazione oggettiva, osservare che la ricorrenza del 10 febbraio si è configurata, fin dalle prime edizioni, come un evento identitario specifico degli esuli giuliano-dalmati, delle loro variegate associazioni e delle loro forze politiche di riferimento. Che stanno notoriamente a destra e dunque oggi in Fratelli d’Italia, erede del Msi di Almirante poi Alleanza Nazionale di Fini (Forza Italia e Lega Nord si sono sempre attestate, per parte loro, sulla medesima linea). Nulla di strano e nulla di male, entro certi limiti. In fin dei conti, fu proprio per offrire almeno un risarcimento morale alle tante sofferenze patite da chi scelse o fu costretto all’esilio dall’Istria, da Fiume e Zara cedute col Trattato di pace del 1947 alla Jugoslavia comunista di Tito, che il Parlamento italiano si ritrovò pressoché unanime nell’intento di favorire la riconciliazione nazionale – dopo le divisioni della Guerra Fredda – e di promuovere la conoscenza di un dramma troppo a lungo ignorato, o negato. Si parlò anche dell’opportunità di costruire una “memoria condivisa”. Obiettivo ontologicamente irrealizzabile, se non da un ipotetico Ministero della Verità, e presto rimodulato dai più avveduti sulla, comunque, nobile idea di una “storia condivisa”. Ossia da scrivere insieme (e questo si sarebbe potuto anche fare, ma sui perché e i per come il tentativo sia fallito miseramente, occorrerebbe un discorso a parte). La sinistra, pertanto, con l’eccezione dei quindici deputati di Rifondazione comunista dell’epoca, si ritrovò compatta nel dare il proprio assenso alla legge. Ma, c’è un grosso “ma” da evidenziare.

La legge del 2004 è chiara e precisa nel suo dettato. All’articolo 1 è scritto che ”la Repubblica riconosce il 10 febbraio  quale ‘Giorno del Ricordo’ al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale.” Lo si rilegga bene. Perché il “vulnus” di tutta la questione, la crepa che ha indebolito la normativa svuotandola di tensione solidale e spessore culturale, risiede proprio nell’applicazione faziosa che ne è stata fatta. Qualcuno si è chiesto come mai, nelle commemorazioni ufficiali come nella maggior parte delle rievocazioni di stampa, delle conferenze e dibattiti in materia, si sia quasi sempre parlato (in quel “quasi” rientrano i dubbiosi onesti, fra cui molti storici di professione, e pochi veri negazionisti faziosi o riduzionisti della gravità degli eccidi) soltanto di “foibe ed esodo”? Di questo binomio inscindibile riferito agli “italiani colpiti solo in quanto italiani”, omettendo o marginalizzando invece il letterale riferimento della legge alla “più complessa vicenda del confine orientale”?

Una dimenticanza che non pare casuale, ripetuta e consolidata negli anni sino a diventare l’unica lettura ammessa, accettabile, di quella pagina dolorosa e feroce. La verità ufficiale. Confermata dalla nuova legge in arrivo. La verità storica, però, è ben diversa. È un rigoroso – forse scomodo ma necessario – richiamo a tutto ciò che ha contribuito a creare il clima d’odio, di rivalsa e vendetta, in cui si è consumata la tragedia delle esecuzioni sommarie e delle odiose violenze consumate soprattutto contro gli appartenenti alla comunità italiana, che il termine “foibe” racchiude in sé. A quell’insieme concatenato di vicende che fu all’origine anche del connesso trauma della diaspora giuliano-dalmata. Senza dimenticare che le persecuzioni e la fuga dalle ex “terre redente” riguardarono anche un buon numero di slavi, e anche di antifascisti, contrari all’annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia o all’ideologia del nuovo regime. Non si può pertanto tralasciare il cosiddetto “contesto”, termine che tanto infastidisce la destra affezionata al mito del “bravo italiano” (da contrappore al “barbaro slavo”), per selezionare una riduttiva “memoria ufficiale” da agitare come clava contro qualunque posizione da essa dissenziente.

Come si fa a ignorare o minimizzare la lunga scia di violenze consumate dal fascismo fin dal suo apparire nelle terre del confine orientale, prima ancora di diventare regime (l’assalto alle sedi sindacali e dei partiti socialisti nel biennio rosso 1919-20, l’incendio dell’Hotel Balkan sede delle organizzazioni slave nel 1920 a Trieste, etc.)? A sorvolare, come fossero state innocue ragazzate avanguardiste, sulla politica di violenta assimilazione e snazionalizzazione delle minoranze slovene e croate condotta per tutto l’arco del Ventennio, fino al precipizio nella Seconda guerra mondiale? A fingere che non abbia avuto un peso determinante l’invasione del Regno di Jugoslavia, con la feroce repressione del movimento partigiano, le stragi di civili, le distruzioni di villaggi, le deportazioni di intere popolazioni in campi di concentramento come quello famigerato dell’isola di Arbe-Rab, la Risiera di San Sabba? Perché, nei “viaggi del ricordo” destinati agli studenti non si è previsto di inserire tappe conoscitive anche in questi luoghi del disprezzo per la vita umana e del dolore degli “altri”? La “più complessa questione del confine orientale” significa tutto ciò e altro ancora.

Senza questa visione più globale della storia, non si sarebbe probabilmente raggiunto il compromesso garantito dall’articolata dicitura che vent’anni fa spinse la sinistra riformista, dopo una profonda autocritica partita dalla svolta della Bolognina, a votare la legge 92. Ai tanto vituperati “comunisti” va per lo meno dato atto che la resa dei conti con il proprio passato – silenzi e stigmi su foibe e esodo compresi – loro l’hanno fatta. Ma gli altri? Gli eredi della Repubblica Sociale? I nostalgici – alcuni neppure troppo travisati – e i pronipoti del Duce? Non se ne vede traccia. Dobbiamo allora ringraziare il presidente Sergio Mattarella per aver voluto “ricordare” lo scorso 10 febbraio, a differenza di altre autorità, anche la “complessità” della storia del confine orientale. Di sicuro, lui ha ben chiaro in testa il pericolo orwelliano insito nella possibilità di un controllo simultaneo e incrociato del presente, del passato e del futuro.

Il cortocircuito della democrazia.

Valerio Di Donato
Valerio Di Donato, giornalista e scrittore. Ha lavorato a lungo al "Giornale di Brescia", occupandosi di politica interna e estera approfondendo in particolare le vicende dell'area balcanica. Ha pubblicato due libri: "ISTRIANIeri. Storie di esilio", uscito nel 2006 con "Liberedizioni" di Gavardo, una serie di racconti di vita vissuta concernenti la storia degli esuli giuliano-dalmati e non solo. Nel 2021 ha esordito nel romanzo storico con "Le fiamme dei Balcani", per i tipi di "Oltre edizioni" di Sestri Levante.

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