C’è una malattia infettiva che mi preoccupa. Arriva e si posiziona nel nostro modo di pensare e di agire. Spesso non te ne accorgi nemmeno. E ti cambia. Così tanto che quando te ne avvedi (e se te ne avvedi) fai fatica a riconoscerti. I segnali sono strani e diversi. Tutti eccessivi. Il silenzio intristito e, all’opposto l’ubriacatura di parole ricorrono spesso. Non c’è una cura infallibile. Ma c’è un sintomo che può aiutare. Se ci si sente nell’anima un segno di fastidioso malessere è già un fatto importante. Quasi una insoddisfazione latente, un disturbo senza cause esplicite, un pensiero che scacciato via torna impenitente. Bene. Questo segnale ti dice che qualcosa non va, che forse ancora non distingui bene “cosa”, ma di certo c’è. E non viene dalla “pancia” dei sentimenti e degli sfoghi. Viene dal cuore e dal cervello. E forse ti può aiutare a ribellarti. Si perché quel che serve è ribellarsi alle maglie che ti stringono e ti tolgono l’aria. Questa malattia si chiama “abitudine”. Fateci caso perché tendenzialmente potreste non accorgervene. Vi colpisce sui temi più importanti della vita. E comporta quasi sempre rassegnazione o peggio rinuncia. Lascio naturalmente perdere i lecchini del potere pronti al sacrificio di ogni autonomia di giudizio per compiacere ed assecondare. Così come non mi interessano i settari e quindi quelli del tutto bianco e tutto nero. Che alla fine premia solo il loro ego in una civiltà annientata. Ma la subalternità, il timore, le paure, il rifiuto dell’aggressività che spesso portano al silenzio non sono malattie incurabili. Non è impossibile costruire il coraggio delle proprie idee. E’ certo faticoso ed a volte lungo nei tempi. Ma è possibile. E non c’è soddisfazione più grande del sentirsi a posto con se stessi, dell’avere avuto il diritto ad esistere. Allora togliamoci da vocabolario la parola “abitudine”. Alle guerre che proliferano, ai militari ed ai civili che muoiono, ai migranti che scompaiono? Certo, e non solo. Perché la ragione non sempre si coniuga con l’esistenza e la vita. Perché siamo pieni di deserti che abbiamo chiamato “pace”. Occorre far tornare a contare i popoli. Perché l’unica opportunità che rimane è quella di avere la forza delle persone e quindi quel senso di “urlo” che può essere sentito e non rimanere isolato. Il segnale della realtà che ci viene raccontato dai media dice che sempre di meno vi è richiesta di democrazia. E questo accade perché esiste una drammatica “abitudine” alle cose. E non possiamo rifugiarci nel chiedere lo spazio novecentesco che era proprio delle organizzazioni di massa e che esprimevano “voglia” di contare e di gestire gli stati e le cose. Ma c’è la possibilità di contare nelle grandi idee, nei luoghi particolari e nella vita della comunicazione. Facendo ciascuno la sua parte e non attendendo unanimismi, non vi saranno. Prima che sia tardi.
Abitudine, sinonimo di adeguamento, tristezza interiore, apatia. Sfociano nell’adeguarsi, al pensare con la testa degli altri. E decretano la morte dell’identità.
Una cura che forse non può risolvere, ma almeno circoscrivere il problema? Lo studio, la lettura, la ricerca.
Forse così riusciremo a salvare almeno una parte della parte migliore di moi
L’ essere abitudinario è un comportamento che sta coinvolgendo sempre più persone, molte volte sfocia nell’ essere tifoso, non solo nello sport, ma anche nella politica. Un passo avanti sarebbe cominciare ad apprezzare nello sport chi gioca meglio, con più passione, mentre in politica apprezzare se anche gli altri partiti fanno a volte delle scelte migliori del nostro. L’ ideale sarebbe non sentirsi “legato” ad una squadra, ad un partito, ad una religione, ad una associazione, ciò porta ad diventare più obiettivi e creativi. Con un partito si può collaborare nel periodo in cui lo si sente più in sintonia con i nostri ideali., per abbandonarlo nel momento in cui si allontana da questi. Ma per l’ abitudinario non è così facile cambiare. Si arriva addirittura ad osservare tante persone che mangiano sempre le stesse cose, che vanno in vacanza negli stessi posti, che a seconda dei giorni fanno le stesse cose, che per loro la cultura è semplicemente nozionismo,… Ma forse i nostri geni ci condizionano tutti e risulta difficile cambiare.
Condivido l’articolo di Maurizio Cecconi. Grazie.
Pensi davvero che sia l’abitudine il problema? Quando penso all’abitudine mi vengono in mente dei gesti quotidiani, per i quali ho anche un certo affetto. No, io penso che il problema sia la pigrizia, quella mentale intendo. Quella cosa per cui piuttosto di “mettersi a pensare” e “costruire un ragionamento” essendo tra l’altro, perlopiu’, privi di lessico, una gran quantità di individui si tiene fuori come non fosse cosa che li riguarda. Su qualsiasi argomento che implichi un minimo sforzo di pensiero. Sono felice di aver vissuto gli anni in cui era tutta una discussione su tutto, e’ stata una palestra fantastica per la mente e continuo ad esercitare questo esercizio, perché il mio stato di essere “libera” ha bisogno di verifiche quotidiane. Libera di pensare, sempre!