Scrivere libri che raccontino brani della propria biografia, solo lievemente celata nell’impasto narrativo, si presta a due generi di rischi: la tentazione di renderli appetibili attraverso un maquillage, per compiacere lettori viziati da abbondanza di straordinarietà, incapaci di cogliere le garbate fioriture nei giardini delle vite normali; il rischio opposto è quello di costringere a sorbirsi tirate autocelebrative, intrise di ordinaria banalità.
Per questo, quando mi capita sotto agli occhi un romanzo come Acque Alte (Priamo Editore – Editore Meligrana – 2024) dello scrittore veneziano Cristiano Dorigo, provo una specie di consolazione interiore, istintiva: esiste un territorio letterario pulito, dove la sincerità affascina e dona alcune profondità, senza mai scadere nella pedanteria.
Dorigo, scrittore di notevole consapevolezza, ha composto una specie di diario, ipotizzando un’acqua alta improvvisa che durasse ininterrottamente per sette giorni. Complice di questa scrittura è dunque l’isolamento forzato del protagonista, alter ego dell’autore, segregato dentro il piccolo appartamento veneziano che fu dei propri genitori.
L’isolamento, non la solitudine interiore, è condizione necessaria per far lievitare i ricordi e con essi l’impellenza di lasciarne traccia; capita a chi pratica la scrittura, in un certo senso come per un irresistibile tentativo di estendere almeno un poco una propria permanenza, affidandola alla carta: io la chiamo la nostra eternità possibile.
Nella casa assediata dalle acque e dal maltempo, simboliche minacce di distruzione graduale, diviene acuto nel pensiero del protagonista il carico emotivo legato a quelle figure familiari che hanno contato nella sua vita, alcune delle quali sono scomparse. Contemporaneamente riemergono alcune storie vivide e spesso imbarazzanti che hanno per protagoniste le “sue ragazze”. L’autore/protagonista ha un’esperienza sedimentata come educatore in una comunità speciale. Ospiti temporanee sono, appunto, delle ragazze sottratte legalmente alle proprie famiglie originarie, perché colpevoli di aver trascinato nel degrado, anche morale, le giovani esistenze: quello che consideriamo il nido protettivo naturale, per talune sfortunate si rivela l’inizio di un inferno da cui si può risorgere, se si è affiancate da persone sensibili.
La famiglia e le sue ragazze: abbinamento automatico, apparentemente singolare. Invece il significato, tutto affettivo, si dipana chiaro nelle pagine. La cura delle vittime dell’anima ha preteso un posto speciale nel suo tempo. L’esito felice da film americano non è gratuito. La fatica della liberazione dai fantasmi lascia sempre delle cicatrici invisibili e talvolta, purtroppo, è comunque destinata al fallimento. Sono proprio il senso del pudore e della dignità ad emergere nei sette racconti toccanti che l’autore ci dona. Lontano dalla sua prospettiva è il pietismo di maniera. Ogni giovane donna evocata ha un nome simbolico ed è quello di un fiore. Ma non è romanticismo d’altri tempi, un poco da pastiglie Leone: si tratta di rispettosa protezione dell’anonimato.
Così compare Amaryllis che “andava e spariva in un turbine d’aria cattiva”: ha dovuto assorbire come spugna tutto lo sporco scaricato in famiglia, agonizzante come per una condanna. Ha pagato un prezzo anche per Bucaneve, sua sorella che per bontà del destino invece è comunque riuscita a smussare le asperità della vita. Ma Dalia faceva troppa fatica con tutto ciò che aderiva alla logica. Per lei era difficile “come un’equazione algebrica con radicali e non sapeva cosa fosse l’amore”. Perché amava sempre. Di Lavanda si impara a conoscere che ha un carattere oscillante in un’evanescenza, dove tutto la sfiora ma non si lascia toccare e “pensa che la vita è una merda”. Margherita, dopo anni di passaggi come una merce scomoda in affidi andati a male, sceglie infine di uscire dalla tutela e riesce a ricavarsi una vita propria, merito dei risvolti solidi della propria indole. Drammatica e indigeribile, nella sua letteraria bellezza descrittiva, è la storia di Primula, che il protagonista sceglie di far raccontare al padre stesso della ragazza: una brutta faccenda di anoressia, ma anche il calvario di un genitore premuroso e impotente che sceglie di ingolfarsi di cibo, tanto quanto quello che la ragazza rifiuta, nell’impossibile e disperato tentativo di una compensazione. Viene infine Ninfea, frutto esotico, apparentemente avvolta da un’aura di indolenza, di mancanza di fretta incomprensibile e vittima di pregiudizi, che invece spiazza tutti e riesce a costruirsi un futuro possibile.
Sette giorni e sette notti sono giusto quelli che servono al protagonista per ritrovare anche una dimensione emotiva personale, guardarsi dentro e riconoscersi allo specchio, operare un processo di ricostruzione. Soprattutto superare la pressione delle assenze, così forte in quella casa al primo piano, dove si svolsero capitoli pregnanti della sua vita. Rivive gli attimi in cui è mancato il padre, una tragedia rappresentata da Dorigo senza indulgere mai al melodramma, che fa avvertire di più il peso della fatalità incombente. Il tono dell’autore è sempre pacato, di una pacatezza vigile che non è distanza, al contrario. Vive di scene accennate, di allusioni, di atmosfere intime e soffuse. Riaffiora anche il ricordo della madre malata, capace di uscire per qualche attimo dalla propria profonda catatonia, di fronte al televisore che trasmette l’immane attentato alle torri gemelle di New York.
Commuove particolarmente il racconto che l’autore dedica alla nascita della propria figlia. Lo compone in un modo inusuale, immedesimandosi e trasfigurandosi nel corpo della madre, passo passo seguendo gli stadi, i pensieri della puerpera affacciata al mistero della natalità che le appartiene, nello sdoppiamento di se stessa. La narrazione è coinvolgente, per nulla scontata: Dorigo riesce davvero a far presentire la sofferenza delle doglie, l’inquietudine e i timori, l’agitarsi della creatura nel liquido amniotico, fino all’esaltazione per il frutto dell’amore che finalmente viene alla luce. L’accostamento dei propri casi personali alle storie “estranee” delle ragazze conferisce, dunque, un senso di pregevole umanità all’insieme e restituisce una specie di compassione: il professionista sociale dedicato alla vita altrui, che deve mantenere l’aplomb, non cessa per questo di covare un proprio intenso vissuto, fonte di gioie e di squilibri che lo accomuna.
Questo romanzo si nutre di una scrittura limpida, di intuizioni talvolta inattese e per questo sorprendenti. Con lentezza, così come scende la marea acquatica, progressivamente procede anche il percorso narrativo che si fa apprezzare nella sua bellezza morbida, quasi attutita.
Treviso 16 04 2024 – Mi riconosco pienamente nella tua analisi: “L’isolamento, non la solitudine interiore, è condizione necessaria per far lievitare i ricordi e con essi l’impellenza di lasciarne traccia; capita a chi pratica la scrittura, in un certo senso come per un irresistibile tentativo di estendere almeno un poco una propria permanenza, affidandola alla carta: io la chiamo la nostra eternità possibile.”
Splendida lettura di uno splendido libro.