Nonostante i tentativi anche recenti di sminuirne l’importanza, il 25 aprile resta una data fondamentale della nostra storia perché la Liberazione é patrimonio di tutti, é frutto dell’antifascismo e vive nella Costituzione italiana.
“Ci ammazzavano gli amici più cari. I compagni di scuola, i vicini di casa perché non volevano che fossimo liberi di amare e di sognare un mondo migliore e più giusto” scriveva trent’anni fa Giacomo Sandri spiegando ai giovani cosa avesse significato per la sua generazione partecipare alla lotta di Liberazione. Una lezione da tenere ben presente oggi più che mai vista la tendenza a tentare di cancellare a colpi di revisionismo quello che invece è uno dei cardini fondanti della nostra repubblica: l’antifascismo. Un parola che il/la nostro/a presidente del Consiglio proprio non riesce a pronunciare nemmeno alle Fosse Ardeatine o al Ghetto di Roma dimostrando un convinto e temiamo incurabile attaccamento a certi ideali mai completamente scomparsi e che proprio in questa particolare contingenza politica ritrovano terreno fertile. Ma noi il 25 aprile continuiamo ancora con orgoglio a considerarlo una festa nazionale e in particolare vogliamo provare a ricordare cosa significò l’occupazione nazifascista per Mogliano Veneto. Dopo essere stata già in prima linea durante la Grande Guerra, la nostra cittadina si ritrovò tra la fine del 1943 e il 1945 teatro di scontri feroci. La sua posizione strategica lungo il Terraglio, secolare via di comunicazione con il nord, l’azione di importanti formazioni partigiane come la “Ferretto” nel mestrino e la “Negrin” nel trevigiano e di contro la presenza di comandi tedeschi e delle Brigate Nere, la collocarono proprio al centro dell’intensa attività di guerriglia nel Veneto meridionale.
Ma chi furono i protagonisti di quelle giornate terribili e gloriose? Molte strade e piazze ne riportano i nomi ma con il passare delle generazioni il loro ricordo corre il rischio di sprofondare nel buco nero dell’oblio. Per questo oggi vogliamo ricordarne due in rappresentanza di tutti quelli che sacrificarono la loro giovane vita per la libertà di tutti, due figure diverse per ruolo e vicende ma accomunate dal medesimo destino: un ufficiale moglianese caduto lontano dalla sua città e un soldato semplice calabrese morto a Mogliano Veneto.
Ignazio Vian, 27 anni veneziano ma residente a Mogliano, era sottotenente di complemento della Guardia di Frontiera e per non aderire alla Repubblica di Salò dopo l’8 settembre 1943 si unì alla resistenza in Piemonte dove era di stanza. Il 18 settembre i tedeschi diedero il via ad un pesante rastrellamento nella zona di Boves (Cuneo) dove erano concentrate le formazioni partigiane. La mattina del 19 due soldati giunti in auto nel paese erano stati catturati e il loro comandante, il famigerato maggiore delle SS Joachim Peiper (che si renderà autore anche del massacro di prigionieri americani a Malmédy e verrà processato come criminale di guerra) inviò tramite il parroco di Boves e un industriale del luogo, la richiesta ai partigiani di rilasciare i due prigionieri in cambio del ritiro incondizionato delle truppe tedesche. I prigionieri vennero rilasciati ma Peiper naturalmente non mantenne la parola e attaccò con l’artiglieria le postazioni partigiane che resistettero per ben 12 ore. Alla fine l’intero paese venne dato alle fiamme, il parroco, l’industriale e altri cinquantasette civili vennero trucidati. Dei 280 uomini della banda di Vian ne rimasero 35. Successivamente il giovane tenente assunse il comando in seconda del primo Gruppo Divisioni Alpine fino al marzo del 1944 quando anche questa formazione venne quasi totalmente distrutta dai nazifascisti. Vian cercò allora di prendere contatti con il CNL di Torino ma fu tradito da un delatore e arrestato il 19 aprile 1944. Ripetutamente torturato per ottenere informazioni, nel timore di non poter resistere si tagliò le vene ma venne salvato. Appena in grado di reggersi in piedi, il 22 luglio con altri tre compagni fu impiccato ad un albero in corso Vinzaglio nel centro di Torino. Gli fu concessa la Medaglia d’Oro al Valor Militare.
Di tutt’altro tipo la fine di Giuseppe Surace, nato a nel 1923 Taurianova (RC). Di professione contadino e poi militare di leva, dopo l’8 settembre rimase impossibilitato di tornare a casa dall’imperversare dei combattimenti lungo la Linea Gotica. Sbandato, senza documenti di riconoscimento riuscì in qualche modo a sopravvivere sempre tentando di tornare a casa ma durante una delle numerose retate venne arrestato, considerato renitente alla leva e rinchiuso nelle carceri di Santa Maria Maggiore a Venezia. In quei giorni, nel settembre del 1944, alcuni partigiani fecero saltare il ponte della ferrovia sul Dese a Marocco per colpire i trasporti militari. Così i tedeschi vollero compiere una rappresaglia esemplare per scoraggiare qualsiasi altro tentativo di sabotaggio. Come capro espiatorio scelsero il povero Surace, che, ignaro della sorte che lo attendeva, il 5 settembre fu trasferito a Marocco e trattenuto per due giorni presso villa Fürstenberg, sede del comando della Wehrmacht. Crudeli fino in fondo i suoi carcerieri lo obbligarono a pulire pavimenti e mobili della villa ma la mattina del 7 settembre venne trasportato fino al ponte sul Dese. Fu allora che Giuseppe si rese conto di quello che sarebbe stato il suo destino e svenne. Mentre era ancora a terra gli fu messo il cappio al collo ricavato da una matassa di filo di ferro e legate le mani dietro la schiena. Poi il povero soldatino del Regio Esercito, abbandonato dal suo re e dai suoi capi, si fece il segno della croce, invocò più volte la mamma e salì oltre la ringhiera del ponte su cui era stato fissato il cappio. Un altro soldato come lui, ma tedesco, lo spinse nel vuoto. Erano le 11 del mattino del 7 settembre 1944 e il corpo di Giuseppe Surace rimase appeso sopra il fiume con i piedi che sfioravano l’acqua fino a quando alcuni contadini non lo ricomposero pietosamente. E’ sepolto nel cimitero di Mogliano Veneto, a oltre mille chilometri dalla sua Calabria e di lui non resta nemmeno una fotografia.
Queste sono due storie fra le tante che compongono l’epopea della Liberazione. Da queste vicende, da questi nomi, da questo immenso patrimonio di dolore e di coraggio, di disperazione e di altruismo è nata la nostra Repubblica e contro qualsiasi tentativo di equiparazione fra parti in lotta bastino le lucide parole di Pietro Calamandrei: “Il ventennio fascista non fu, come oggi qualche sciagurato immemore figura di credere, un ventennio di ordine e di grandezza nazionale: fu un ventennio di sconcio illegalismo, di umiliazione, di corrosione morale, di soffocazione quotidiana, di sorda e sotterranea disgregazione morale”.
Coraggio presidente Meloni ripeta con noi, é facile: an-ti-fa-sci-smo!
Condivido al 200% lo spirito dell’articolo, ma chiedo una spiegazione: come fece Giuseppe Surace a farsi il segno della croce con le mani legate dietro alla schiena?
Non è che ci voleva per forza?