Esempio estremo di razionalità progettuale questa vetturetta fu il simbolo di una certa idea dell’Inghilterra, simbolo della “swinging London” degli anni Sessanta.
Con i “se” non si fa la storia ma se nel 1922 i Turchi non avessero occupato Smirne e costretto alla fuga migliaia di cittadini greci probabilmente la Mini non sarebbe mai nata. Perché tra questi profughi c’era anche un sedicenne di nome Alexander Arnold Constantine Issigonis, figlio di un armatore inglese di origine greca, che così approdò in Inghilterra diplomandosi ingegnere tre anni dopo. Iniziò quindi a lavorare dapprima presso la Humber e poi alla Morris dove nel 1948 realizzò la Minor, prima vettura britannica a superare il milione di esemplari prodotti, che già rispecchiava i principi ispiratori della sua filosofia progettuale: facilità di guida, stabilità, spazio per i passeggeri e naturalmente una grande economicità di utilizzo.
Nel 1952 Morris e Austin si unirono nella British Motor Car (BMC) e proprio da Sir Leonard Lord, presidente dell’azienda e imprenditore fra i più illuminati dell’industria inglese, venne la spinta per realizzare una vettura completamente inedita per il panorama automobilistico britannico, piuttosto conservatore. A quel tempo la situazione economica del paese non era delle più rosee e a diversi anni dalla fine della guerra vigeva ancora il razionamento per molti generi di prima necessità. A questo si aggiunse la penuria energetica conseguente alla crisi di Suez del 1956 quando inglesi e francesi tentarono senza successo di impedire con le armi al presidente egiziano Nasser di nazionalizzare il canale. Con queste premesse ben poco incoraggianti Lord incaricò Issigonis di creare un’automobile moderna ma soprattutto economica, sostenuto dalla convinzione che “costruendo automobili tremendamente buone, quella di venderle è l’ultima preoccupazione”. La Mini nacque così da una combinazione di fattori piuttosto rara: una urgente esigenza oggettiva unita al genio di un grande progettista lasciato libero di creare. Era la situazione ideale per la nascita di un capolavoro e capolavoro fu.
Denominato ADO (Austin Drawing Office) 15 il progetto si caratterizzò subito per il massimo sfruttamento dei volumi per cui motore, trasmissione, ruote e sospensioni dovevano togliere meno spazio possibile all’abitacolo da quattro persone e al bagagliaio. Così il propulsore, un modesto Morris di 948 cc., venne posizionato trasversalmente per ridurre l’ingombro e ottimizzare la distribuzione dei pesi, criterio che portò a collocare il cambio addirittura sotto al motore. La trazione naturalmente era anteriore per eliminare il tunnel della trasmissione e alla fine tutto il gruppo motore-trasmissione occupava meno di mezzo metro di ingombro longitudinale: Issigonis aveva realizzato un vero miracolo che avrebbe fatto scuola.
Le ridotte dimensioni della vettura imposero l’utilizzo di ruote da dieci pollici, una novità per l’industria britannica tanto che la Dunlop venne chiamata a produrre ex novo questo tipo di pneumatico. Inedite, di conseguenza, furono anche le sospensioni (a ruote indipendenti) che sostituivano le tradizionali molle elicoidali con degli elementi in gomma in grado di ammortizzare meglio le sollecitazioni trasmesse da ruote così piccole.
Le prove su strada dei primi prototipi, svolte nell’autunno del 1957, confermarono la bontà del progetto anche se si dovette ruotare di 180 gradi il propulsore per evitare il congelamento dei carburatori sotto una certa temperatura, operazione che comportò anche la riduzione della cilindrata a 848 cc. Dopodiché Lord ordinò l’immediata messa in produzione della nuova vettura che venne presentata ufficialmente sia come Austin Seven che come Morris Mini Minor il 26 agosto 1959.
Alle lodi della stampa specializzata si accompagnò un certo sconcerto del grande pubblico a cui era destinata che la definì niente più che una “scatola” mentre a restare entusiasta della Mini fu una utenza più raffinata che ne intuì subito la forte carica innovativa. Infatti negli anni Sessanta diventò una icona della società britannica (per molti altri versi così fortemente legata alla tradizione) e non si contano i personaggi della cultura pop di quegli anni che unirono la loro immagine alla vetturetta sbarazzina, da Jean Shrimpton ai Beatles. La piccola inglese può vantare, come poche altre vetture, anche un film di culto che la vede protagonista: si tratta di The Italian Job del 1969 con protagonista Michael Caine nel quale tre Mini arrivano a Torino per una mega rapina e si producono in spettacolari inseguimenti sconvolgendo l’austera città sabauda. Nel 1970 il nome Mini venne a identificare un marchio vero e proprio che continuò imperterrito a sfornare versioni della creatura di Issigonis compresa una sportiva, la mitica Mini Cooper, che riuscì a vincere ben tre volte il Rally di Montecarlo.
Resta da dire che anche l’Italia ha avuto un ruolo importante nella storia della vettura inglese in quanto venne prodotta su licenza dalla Innocenti di Lambrate tanto che le Mini Innocenti potevano vantare una qualità costruttiva addirittura superiore a quella britannica. Nel nostro paese furono spinte inoltre da una campagna pubblicitaria dinamica e moderna che si avvaleva di slogan rimasti famosi tra cui l’impareggiabile “Non desiderare la Mini d’altri”. Oggi la Mini ha senz’altro perso la sua anima sbarazzina, non è più una scatoletta con le ruote ma è diventata un’auto piuttosto chic e per di più ha ormai un’anima tedesca visto che appartiene alla BMW. Ennesima evoluzione di un progetto geniale o involuzione dovuta all’ipertrofia automobilistica odierna? Ai posteri l’ardua sentenza.
Treviso 17 06 2024 -Molto interessante…