Ungaretti e le tracce umane nella trincea

Caro Ungaretti,

anche tu cadesti nell’illusione tragica che l’umanità condivide. La guerra come ineluttabile risoluzione delle contraddizioni che la Storia ci presenta continuamente. Povero poeta, entusiasta di partecipare ad un rito macabro e sacrificale, ma in nome di un’idea di patria che allude alla libertà. Ti indignasti quando, cagionevole di salute, ti rifiutarono l’accettazione da volontario nell’esercito. E fosti contento – il mostro infernale aveva già divorato al fronte centinaia di migliaia di tuoi coetanei – quando ti comunicarono finalmente l’arruolamento. Lo sappiamo che le circostanze belliche precarie svuotano carceri e manicomi, rivalutano gli scarti e sembra realizzarsi una mirabile utopia: l’eguaglianza di un popolo intero, riconosciuto almeno come carne e sangue. Carne e sangue da esporre al piombo nemico, carne e sangue pronta anche ad uccidere. In alto i capi scelgono le pedine, decidono le strategie: nella polvere si battono uomini e donne resi animali feroci, in una sospensione di giudizio morale che deve essere asservito alle leggi marziali.  Allora ti ritrovasti nel budello di macerie tra case diroccate, condividesti il pasto con i topi della trincea. Dopo, il mondo non è cambiato, sai. È mutata la tecnologia che sa procurare la morte. Ma la nera Signora imperversa con la sua falce meglio affilata. In fondo, la mentalità è rimasta quella dei rozzi cavernicoli che si battono con le clave per un pasto più ricco. Fu proprio Einstein, in una delle sue fulminanti intuizioni a dire: «Non so con quali armi verrà combattuta la terza guerra mondiale, ma la quarta verrà combattuta con clave e pietre». La capacità umana di autodistruzione non ha limiti. È una specie di eterno ritorno alla casella di partenza come in un grottesco gioco dell’oca. Conosciamo da Hiroshima il sapore sanguineo del fungo atomico: eppure abbiamo continuato a rifornire i nostri depositi, a puntare bombe migliaia di volte più potenti. Il disarmo nucleare, progetto anni sessanta, è una remora divenuta teorica, la minaccia nucleare è persino abusata nelle parole dei potenti.

Caro Ungaretti, eri convinto di batterti contro un nemico reale e potenzialmente pericoloso, invece c’è una bestia che alligna in ognuno di noi e si libera all’occasione, con furia. È riduttivo e ingiusto affermare che specialmente i tedeschi han dato prova di una certa schizofrenia intellettuale: da sempre han coltivato un’idealità sublime, confortata dal pensiero dei loro grandi filosofi, dei musicisti, degli scrittori che solleva ai vertici l’umanità. E contemporaneamente sono stati protagonisti della fallimentare gara agli orrori che ha nome nazismo.  Questo meccanismo perverso ci riguarda tutti: oggi mette in luce gli israeliani oltranzisti, oppure i russi, i soliti americani, ma in forme diverse ha riguardato e riguarda anche gli italiani. Non spreco parole per la guerra sottesa contro gli umili della terra che affondano nel nostro mare, la violenza affiorante, i rigurgiti fascisti che han scordato il nostro dramma e le colpevoli perdonanze dello Stato dopo la nefasta esperienza di un duce truce.

Caro Ungaretti, forse è necessaria l’abiezione per poi innalzarsi in una rigenerante catarsi. Non affermo un principio aberrante e consolatorio: questa è una manifestazione di debole speranza. Anche tu, caro Ungaretti, infine conoscesti il significato intenso della parola fratellanza, ti sorprese la nausea per la disumanità della guerra, proprio in quei cunicoli infestati di pulci, tra l’odore della polvere da sparo e dei corpi putrefatti, nei campi di battaglia seminati a morti.

Ci hai lasciato un’eredità terribile: quella dei pentiti della propria illusione di ogni tempo, nel rischio sperimentato di essere costretti a ripetere gli errori, per potersene liberare consapevolmente.

Il ministero della Pubblica istruzione (e del merito?) ha suggerito ai ragazzi, per l’esame di maturità, la traccia della tua poesia straziante “Pellegrinaggio”. Io desidero interpretarla come un inno alle ragioni di chi non ha più forza, di chi non esibisce i muscoli, di chi ha compreso il senso dell’insensatezza del combattimento perenne.

Oggi anche il nostro Paese, sai, si sta attrezzando per acquistare più strumenti di morte: supererà per la prima volta i ventinove miliardi, un miliardo e mezzo in più dello scorso anno (aggiunti ai poco meno di altri 2 miliardi dell’anno precedente). Mancano le case popolari, negli ospedali si attendono mesi e mesi per una visita, le risorse sono brutalmente scarse. Ma ci hanno spiegato che bisogna occuparsi con urgenza della nostra Difesa: la nostra fortezza Bastiani, come direbbe Dino Buzzati, è minacciata. O forse è un alibi? La sicurezza sta diventando il mantra: pronunciarlo ci salva dalla paura interiore, dalla fragilità? Magari avremmo bisogno di un esercito di psicologi, a curare la nostra inconsistenza interiore: poveri albatri che volano alto e sono goffi, derisi dai marinai quando mettono le zampe sulla tolda della nave. Non è un caso, caro Ungaretti, se hai dato nome L’Allegria alla raccolta che contiene alcune delle tue struggenti poesie sulla guerra: reazione al degrado, al senso di perdita inemendabile. Come quando ci scappa da ridere durante una cerimonia funebre. Anche quest’allegria strana è un segnale:

Veglia
Un’intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d’amore

Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita
Pellegrinaggio
In agguato
in queste budella
di macerie
ore e ore
ho strascicato
la mia carcassa
usata dal fango
come una suola
o come un seme
di spinalba

Ungaretti
uomo di pena
ti basta un’illusione
per farti coraggio
Un riflettore
di là
mette un mare
nella nebbia
San Martino del Carso
Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro
Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto
Ma nel cuore
nessuna croce manca
È il mio cuore
il paese più straziato
Fratelli
Di che reggimento siete
fratelli?
Parola tremante
nella notte
Foglia appena nata
Nell'aria spasimante
involontaria rivolta
dell'uomo presente alla sua
fragilità
Fratelli.
Roberto Masiero
Roberto Masiero è nato da genitori veneti e cresciuto a Bolzano, in anni in cui era forte la tensione tra popolazioni di diversa estrazione linguistica. Risiede nel trevigiano e nel corso della sua vita ha coltivato una vera avversione per ogni forma di pregiudizio. Tra le sue principali pubblicazioni: la raccolta di racconti Una notte di niente, i romanzi Mistero animato, La strana distanza dei nostri abbracci, L’illusione che non basta, Dragan l’imperdonabile e Il mite caprone rosso. Vita breve di norbert c.kaser.

1 COMMENT

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here