Un pubblico da grandi occasioni, con la presenza di tanti giovani, si ritrova nella Palestra di via degli Artiglieri 14, preludio del 30° anniversario del Giavera Festival – Ritmi e danze dal mondo. È un richiamo spontaneo: ospite della serata la giornalista Francesca Mannocchi.

Il fisico asciutto e delicato, la voce che non infrequentemente lascia spazio al silenzio di pause riflessive, la gentilezza naturale potrebbero indurre a equivocare su chi sia questa donna: un esempio di formidabile passione per un giornalismo che non indulge mai a lisciare il pelo di chi preferisce ragionare per comodi stereotipi. È una ragazza d’acciaio.

Lavora da freelance con diversi canali televisivi e testate giornalistiche sia italiane, quali L’Espresso e LA7 sia internazionali, ad esempio Al Jazeera e The Guardian, occupandosi di migrazioni e conflitti riguardanti principalmente i paesi della lega araba e la Turchia. Ha ricevuto il Premio Franco Giustolisi “Giustizia e Verità” nel 2015 con l’inchiesta realizzata per LA7 sul traffico di migranti e sulle carceri libiche, il Premiolino nel 2016 e il Premio Ischia internazionale di giornalismo nel 2021. L’abbiamo vista spesso ospite, con la sua carica umana, del programma Propaganda live di Diego Bianchi (Zoro).

Francesca Mannocchi non è una giornalista che si accontenta delle notizie di agenzia, per comporre i suoi pezzi: scende direttamente ad indagare negli scenari internazionali, dove si compiono le sconcezze generate dalle storture dei giochi di potere. Così l’abbiamo vista in Afghanistan, nei giorni in cui il governo americano ha deciso di sbaraccare, e con esso gli alleati occidentali, lasciando milioni di cittadini tarpati dell’aspettativa in un futuro decente, specie le donne, e preda del prevedibile (e previsto) oscurantismo talebano. Non possiamo scordare le immagini di persone assiepate lungo le reti di recinzione dell’aeroporto di Kabul, i piccoli letteralmente lanciati oltre la barriera, per assicurare loro una possibilità di salvezza, o gli uomini pericolosamente appesi alle ali degli ultimi aerei in partenza frettolosa. Pareva la metafora distopica dei provvisori aiuti occidentali.

L’abbiamo vista calcare le rotte dei migranti, per sfatare il luogo comune e rivelarci che gli scafisti sono spesso dei poveri diavoli, mentre le menti danarose del traffico inumano stanno altrove, in lussuosi uffici come a Dubai.

È stata in missione in Ucraina e in mille posti insidiosi. L’abbiamo ritrovata tra la gente comune, molto spesso, a comprendere le ragioni dei Palestinesi e degli ebrei nel conteso territorio mediorientale. Ha la statura morale e il realismo dei grandi giornalisti: talvolta viene fraintesa, quando afferma convintamente che sono stati i fatti storici e il conseguente conflitto perenne a generare l’avvento di Hamas; non si tratta di un caso di incomprensibile fanatismo di tipo pseudo religioso o razziale. Tanto più che Hamas è stata foraggiata, ai suoi albori, proprio col favore del governo israeliano (citazione ufficiale dell’Alto rappresentate Ue per la politica estera Josep Borrell).

Non manca giorno che in quella terra insanguinata si celebri, anche in tempi meno congestionati, almeno un funerale. Abbiamo accettato, come un dato di fatto, che da oltre settant’anni esistano dei campi profughi inospitali, per loro definizione provvisori come a Jenin, dove convivono di fatto con la morte centinaia di migliaia di persone, qui confinate a forza e oppresse. Abbiamo accettato gli espropri violenti delle proprietà e la segregazione di un intero popolo dentro ad un fazzoletto di terra.

Mannocchi ha un figlio di circa 8 anni: chiedendogli cosa vorrà fare da grande, risponde con l’ingenuità dei bambini che sarà un cantante. Posta la stessa domanda ad un bimbo palestinese risponde che vorrà fare la guerra. Non dobbiamo pensare che questa risposta sia la conseguenza di un odio speciale, anche se quel bimbo enumera senza pathos i luoghi dove sono stati rinvenuti i resti dei suoi numerosi parenti morti ammazzati: l’odio matura nelle situazioni eccezionali e sorprendenti. Invece questa è una normalità patologica estenuante e metodica.

La guerra perenne, in assenza di altre vie di sbocco, è l’esempio che gli adulti presentano normalmente e da qui l’educazione che spinge a battersi con le armi, come sbocco naturale, perfino meritorio. La catena di circostanze genera mostri: facile per noi, comodi occidentali, immaginare senza documentarci che si tratti di un popolo di canaglie. Certo, ci sono i morti israeliani innocenti del 7 ottobre. Ma ora vediamo (anzi non vediamo direttamente, perché a Gaza i giornalisti esteri non possono entrare!) un popolo intero che il governo Netanyhau vorrebbe “depurare” con i consueti modi spietati: disseminando cadaveri, vedove, orfani. Forse infine sterminerà migliaia di guerrieri, ma non potrà distruggere le ragioni profonde di un’ingiustizia che si perpetua. I bimbi carbonizzati non sono propaganda. Neppure i 38.000 morti di questo giro. Neppure un Paese intero distrutto, infrastrutture e case comprese, necessariamente allo sbando. È Il trionfo della miseria, il brodo di coltura per il rancore insanabile.

Sicuramente la giornalista non vuol assumere la difesa a oltranza e le parti dei terroristi, come erroneamente qualcuno pensa, per disinformazione o anche strumentalmente: si tratta di mettere sul piatto della bilancia i fatti; la contesa non è destinata a placarsi. Meno che meno – secondo il suo giudizio – immaginare l’irrealizzabile Disneyland rasserenante di due popoli in due stati.

Unica possibilità è scendere a livello della gente comune, con rispetto e senza atteggiamenti di tipo buonista coloniale, per offrire delle alternative su un piano pratico di sviluppo: forse un giorno anche un bambino palestinese sognerà di fare il cantante e non il combattente della jihad. La storia non ammette scorciatoie ed è necessario, anche se non comodo, lavorare a tempi lunghi. Per gli adulti c’è poca o nessuna speranza di rigenerazione.

Sono molti i temi che tocca la giornalista intervistata. Con semplicità disarmante richiama al dovere di occuparci tutti e di più di politica, non di allontanarla come se si trattasse di uno sgradevole inciampo: senza politica si corre verso la follia degli autoritarismi. Traccia un parallelo anche rispetto alla reattività del popolo italiano di altri tempi, rispetto all’oggi: come sarebbe stato possibile immaginare di accettare, senza ribellarsi, di costruire in Albania dei moderni lager (così come ha fatto l’Inghilterra in Ruanda), per liberarsi del “problema” degli immigrati? Ci stiamo abituando ad una specie di regressione a tempi bui. Solo qualche anno fa si sarebbe ragionato per costruire delle concrete possibilità di accoglienza, o di integrazione, nello stesso interesse della nostra nazione, mentre ora tutti gli sforzi sono proiettati ai respingimenti e a patetici piani, fumosi e minimali, di aiuti “nei loro paesi”. Una narrazione di comodo.

In questo momento storico convulso e disorientato, spesso le persone rispondono agli eventi politici disturbanti, colpite come biglie che si proiettano a caso sul piano della vita. Ma ogni tanto accade un miracolo e si ritrovano unite a ribadire che l’umanità, tutta, ha diritto al proprio destino di pace. Scorrono le storie vergognose dei nostri errori…

La narrazione procede senza pregiudizi, senza schemi calcolati per giustificare le forzature sbagliate dei potenti, o le ragioni cocciute di stato. La serata di ieri sera a Giavera, grazie alla giornalista Francesca Mannocchi ha assunto questa dimensione. Ogni tanto fa bene dire di no alle prevaricazioni e alle ingiustizie con l’arma di un sorriso e un pizzico di ironia intelligente. La Mannocchi parla con la forza e la disillusione di chi ha esperienza, di chi vive accanto ai percossi. Si svela che il re, così superbo, è proprio nudo. La serata ci lascia un umore dove la speranza non si confonde con il miraggio: semmai ci indica un percorso umanamente necessario e a senso unico da compiere.

Le interviste eccellenti continueranno giovedì 4 luglio con Gad Lerner e il suo nuovo libro dal titolo Gaza.

L’appuntamento è sempre a Giavera, presso la grande palestra comunale di via degli Artiglieri 14 alle 20,45. Per motivi organizzativi è richiesta la prenotazione telefonica ai numeri: 333-4244376 – 3493000242 o all’e-mail: info@ritmiedanzedalmondo.it

Roberto Masiero
Roberto Masiero è nato da genitori veneti e cresciuto a Bolzano, in anni in cui era forte la tensione tra popolazioni di diversa estrazione linguistica. Risiede nel trevigiano e nel corso della sua vita ha coltivato una vera avversione per ogni forma di pregiudizio. Tra le sue principali pubblicazioni: la raccolta di racconti Una notte di niente, i romanzi Mistero animato, La strana distanza dei nostri abbracci, L’illusione che non basta, Dragan l’imperdonabile e Il mite caprone rosso. Vita breve di norbert c.kaser.

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