Potrei parlarvi in un modo enfatico della trentesima edizione del Giavera Festival che si è chiuso nella domenica notte del 7 luglio.

Mi sarebbe facile raccontare la versione ufficiale: dire, ad esempio, di star mediatiche come Gad Lerner o Marco Damilano. Con le loro intelligenze un poco controcorrente nei fatti e urbanissime nei modi, hanno smontato certi luoghi comuni che le trasmissioni ufficiali ci propinano, secondo le narrazioni televisive edulcorate del potere, in questo tempo bugiardo. Come si dice: in diretta si sono concesse considerazioni che inchiodano l’ipocrisia, sia che si tratti di parlare di Gaza, dalla parte sbagliata di un ebreo infedele, o della situazione politica europea traballante, per le incursioni di un estremismo di destra galoppante, che si fatica a chiamare col suo nome vero: fascismo di ritorno. Potrei parlarvi della giornalista Francesca Mannocchi che, quando è attorniata da pensatori da tastiera di fede reazionaria, talvolta preferisce glissare: a chi proprio ostinatamente non vuol capire, preferisce rivolgersi conversando del fallimento della nazionale di Spalletti, anziché discutere per l’ennesima volta delle infinite guerre che ha conosciuto sui fronti di mezzo mondo, di argomentare ancora una volta le ragioni della pace e degli umili, dei migranti in perenne vergognosa precarietà. È stato un susseguirsi di presenze autorevoli: Il battagliero quanto discreto Riccardo Iacona, con le sue inchieste toste, e poi Giampaolo Musumesci di Radio 24, Marco Omizzolo con Yvan Sagnet che il caporalato lo conoscono profondamente e spiegano che non è un fenomeno marginale, orrido, neppure nel Veneto. Ogni volta occorre ricominciare, c’è da impazzire: nulla è garantito in questo stato sociale che si va smantellando. È la fatica di Sisifo, per innalzare diritti che vengono sistematicamente spazzati e fatti precipitare, nell’omissione talvolta connivente dei guardiani della Legge.

Potrei accennare anche a Marco Paolini in versione serale sul palco, metà guru e metà maitre a penser che si è profuso, di fronte ad una folla grandiosa, per ribadire la necessità della battaglia ecologista. Curiosamente ha dedicato molto del suo tempo a parlare di condivisione e della forza di una voce comune. E ha scoperto l’attualità dei campi veneziani (sì, proprio quelle piazze nella città di San Marco) e del loro metodo, antico ma efficace, per recuperare l’acqua nei pozzi.

Vorrei accennare ai sottofondi musicali di ogni popolo, alle performances strabilianti, alle danze corali, ai giochi dei bambini. Potrei dirvi della condivisione di cibi dai gusti gradevoli e nuovi. Potrei raccontarvi delle sartorie sociali creative e dei corsi di scrittura persiana. Mille altre sorprese: le mostre fotografiche e i libri ricercati e quelli seminuovi a prezzi popolari…

Preferisco usare questa cronaca conclusiva per raccontarvi il fuori scena: il Giavera Festival, in fondo è un grande circo dove non c’è separazione tra gli artisti e coloro che montano le scenografie. L’anima e la forza risiede nella schiera dei volontari e nella loro duttilità. Lo spettacolo ha bisogno di spirito di collaborazione, la disponibilità si misura nei momenti difficili, in cui una macchina così delicata e dimensionalmente impegnativa deve funzionare, anche quando accadono degli imprevisti. Cioè sempre. Così ci sono ingegneri (nella vita privata) che qui accorrono a spostare tavoli e sedie, ragionieri che passano lo straccio, improvvisati autisti che prelevano e portano a destinazione gli ospiti. Attivisti politici che, quando serve, disgorgano le toilettes. Impiegate in unghie laccate che si prestano a lavare le verdure, testare le ricette e a confezionare i pasti. I ruoli si mescolano continuamente, eppure si riconosce una regia capace di spingere verso il raggiungimento di un obiettivo comune: rendere possibile l’incontro di genti e culture del mondo. Ognuno dà quel che può, non sono codificate troppe procedure coercitive, è necessario un poco di esperienza e l’assimilazione degli scopi a cui tutti tendono.

Almeno nei giorni della festa sono banditi i pregiudizi etnici, il colore della pelle vale in preziosità quando la gamma di culture che si confrontano. Il Giavera Festival è tutt’altro che un’utopia: semmai la manifestazione che è concretamente realizzabile un territorio franco di convivenza serena e normale. Dove possono manifestarsi anche contrasti ideologici che aiutano a far crescere un pensiero laterale utile alla società. Dove, fianco a fianco, i ragazzi della generazione Zeta possono sentirsi a proprio agio anche con i boomer. Se questa manifestazione ha un senso (chiamarla così è evidentemente riduttivo, ma si usa e – dunque – perdonate), è proprio quello di rappresentare in embrione una società nuova, capace di includere senza integrare forzosamente. Provocare a ragionare, con gioia, senza schemi opportunisti è un vantaggio comune.

Gli occhi stanchi dell’ultima notte, quando è necessario rimuovere il gran Circo, smontare tutto e lasciare l’area pulitissima, sono il premio di tanto lavoro: ma è una stanchezza solo fisica. Come direbbe la cantante Elisa, l’anima vola. Ben diversa la spossatezza provocata dal tarlo che nella quotidianità rode la vita di donne e uomini che si lasciano vivere con modesta speranza in ciò che potrà avvenire: condizionati da un modello sociale che ha smesso di pensare all’umanità come costituita di entità sensibili. Incasella “i soggetti” trattandoli da semplici esecutori di un progetto economico straniante; al massimo sono valorizzati come un target di consumatori da solleticare con puntuali proposte, individuate dall’algoritmo commerciale che indaga dentro la rete internet.

Ora il gran circo del Giavera Festival ha chiuso questa tornata, ma si ripresenterà prestissimo in nuove forme. Proiettato all’esterno a cercare di immedesimarsi in altre realtà, a porsi e a porre domande che possano contribuire a far crescere, nella consapevolezza, dei veri cittadini. Almeno a coinvolgere coloro che siano disposti a credere nel potere lento ma inesorabile della pazienza, con cui è possibile progettare un cambiamento e riportare nell’attualità le ragioni dell’Uomo.

In fondo, senza alludere ai partiti, si tratta di un grande impegno politico sincero. E di questo tipo di politica abbiamo un impellente bisogno.  

Nel periodo che va dal prossimo 9 agosto fino al 18 agosto una piccola carovana si metterà in viaggio. Lungo la dorsale d’Italia farà tappa in alcune località simbolo per incontrare altre situazioni, intraprendere scambi d’idee, sollecitare una mentalità creativa e critica. Finalmente raggiungerà l’isola di Lampedusa: primo porto di soccorso per i migranti che attraversano il Mediterraneo, alcuni dei quali negli anni sono transitati proprio nella Casa accoglienza di Giavera. Dove, finalmente, han trovato un ambiente fertile per alimentare le loro speranze in un progetto dignitoso.

Altri viaggi di reciproca conoscenza sono in programma: forse nel 2025 si concretizzerà un soggiorno nel Senegal. Non si tratta di turismo puro e semplice, i partecipanti si troveranno a condividere il senso di un popolo, le sue aspettative e le soluzioni. Il Senegal fu anche crocevia di tristi traffici e approdo conteso dalle potenze coloniali. L’isola di Gorée racchiude in sé la storia e la tragedia della vergognosa tratta negriera. Ma il Giavera Festival ci ha abituato a sorprenderci o come dicono loro, in un felice neologismo, a farci “straordinare”. Buon cammino.

Roberto Masiero
Roberto Masiero è nato da genitori veneti e cresciuto a Bolzano, in anni in cui era forte la tensione tra popolazioni di diversa estrazione linguistica. Risiede nel trevigiano e nel corso della sua vita ha coltivato una vera avversione per ogni forma di pregiudizio. Tra le sue principali pubblicazioni: la raccolta di racconti Una notte di niente, i romanzi Mistero animato, La strana distanza dei nostri abbracci, L’illusione che non basta, Dragan l’imperdonabile e Il mite caprone rosso. Vita breve di norbert c.kaser.

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