Jadranska Magistrala si chiama tuttora la strada maestra del litorale adriatico ex-Jugoslavo che percorre la Dalmazia da Rijeka a Dubrovnik (Fiume e Ragusa) e poi giù fino al Montenegro. Pochi ricordano il nome italiano di Dubrovnik, perlopiù triestini e veneziani, ma il Raguseo del Mulino del Po di Riccardo Bacchelli si chiamava così perché da lì proveniva. Pochi, del resto, ricordano anche il Mulino del Po di Riccardo Bacchelli. Amen.

Nel 1984 la strada era stretta e ardua di curve, tortuosa anche in saliscendi sul suo litorale e spesso a strapiombo sul suo mare, stupendo di isole e insenature. Tratti privi di banchina e guard rail incutevano un certo timore soprattutto quando si intravedeva, in basso, una carcassa d’automobile incastrata fra le rocce, l’entità della ruggine a indicare l’epoca del sinistro. Percorrerla in moto sarebbe stato affascinante ma mi avrebbe tramesso una certa inquietudine. In compenso era proprio nei punti non protetti che Jadranska offriva le sue viste più belle, che riapparivano improvvise quando, lasciati i tratti interni non esposti, ci si riaffacciava su quel mare e su quelle isole, dall’alto.

Per non rinunciare allo spettacolo si scese fino alle Bocche di Cattaro e fin quasi al confine albanese con breve visita a Ulcinj, vivacità levantina ancora autentica nel carattere urbano e nella popolazione. Poi si risalì verso Dubrovnik, gemma adriatica e meta della vacanza. Senonché a Dubrovnik in quell’estate non si trovava alloggio e dopo una notte trascorsa in Panda si cercò qualcosa nei dintorni. Ci indicarono un’abitazione privata che forse ci avrebbe ospitato -la soluzione da noi preferita- ma la signora che ci accolse era lì in vacanza con tutta la famiglia e non intendeva ospitare turisti. Ci fece comunque accomodare fuori per un caffè, dentro casa dormivano ancora.

Oltre una certa latitudine in direzione sud-est, ben prima di arrivare in Grecia per non dire Turchia, il caffè era caffè turco. Prediletto per la sua chincaglieria in rame sempre un po’ ammaccata, per la quieta temperatura e la giusta dose di zucchero all’origine, il caffè turco vuol essere sorbito con sapienza e calcolato indugio. Vuole abbastanza tempo che i fondi posino ma non troppo che si raffreddi. Poi vuole sorsi cauti, non fino in fondo da sentirselo sulla lingua (il fondo) ma abbastanza per cogliere la frazione più densa, la più cremosa. Le tazzine rame e ceramica vengono quindi capovolte (si sciacqueranno poi, a lor comodo) perché i fondi devono posare a lor comodo per le successive divinazioni. Pur che ci sia a tiro qualcuno, meglio qualcuna, esperta a interpretarli. O abbastanza disinvolta da fingerne esperienza. Di solito c’è. Insomma, il caffè turco non è cosa da italiani.

Madame Bisera era di statura piuttosto alta, sui quaranta-cinquanta ben portati. I capelli non troppo rossi e non troppo ricci, la bocca non troppo dipinta e il sobrio negligè le conferivano una sensualità matronale quieta e appagata, ancora lievemente guardinga. Il rituale turco le offrì l’agio di studiarci con calma, anche senza i nostri fondi. Alla fine ci sorrise, e ci prese. Quattro soldi fanno sempre comodo e poi era lei la reggiora della casa, dove trascorreva l’estate con la mamma nativa di Zara, due sorelle minori e relative famiglie. Lei e il suo Rade, timido e gentile, erano invece di Sarajevo. La loro figlia Nina un po’ le somigliava, bruna e risoluta studentessa di Legge. Masticando quel poco d’inglese era lei che interfacciava volentieri e nacque presto una reciproca simpatia. Dopo una visita a Dubrovnik o una giornata al mare si cenava tutti insieme -una bella squadra contando il nipotame cadetto- quasi sempre con carne accompagnata da ajvar e kaimak, formaggio molle acidulo un poco salato. Il pop neomelodico jugoslavo passava in sottofondo e uno zio voleva sempre ballare con la mia compagna dopo cena. Nina mi raccontava che nonna era cattolica, Rade ortodosso, Bisera musulmana e lei agnostica. Degli altri non disse o non ricordo, neanche la provenienza geografica nell’affaticato assetto di repubbliche e regioni autonome che ancora resisteva. Ancora per poco.

Senonché di quella vacanza in famiglia lei ne aveva ormai abbastanza, e due giorni prima del nostro rientro ci propose di accompagnarla a casa a Sarajevo e ospitarci un paio di notti, il tempo di visitare la città. Aveva voglia dei suoi compagni e di un po’ di libertà. Sarajevo non era nei piani ma ci attirava molto, sicché la sera prima lo zio ballerino mi segnò con cura l’itinerario più adatto su una cartina stradale con una biro. Non esisteva ancora Google Maps per fortuna. Il viaggio fu abbastanza agevole e interessante, borghi e paesaggi autentici, suggestivi e diversi (cerca l’autentico, non l’esotico! dice la solita voce di dentro) e infine Sarajevo con le sue botteghe orientali ancora intatte. Ancora per poco.

Dopo due giorni di visita salutammo Nina con un po’ di magone ma il lungo ritorno fu piacevole, col ponte di Mostar ancora intatto sospeso sulla sua Neretva, i suoi tappeti e le sue leggende. Ancora per poco.

Poi il paesaggio trascorse dalle suggestioni balcaniche a una subentrante tonalità centroeuropea fino a casa.

Durante la follia della guerra jugoslava pensai spesso a Nina e alla sua variegata famiglia, al calvario della loro Sarajevo e di chissà quante famiglie miste travolte da quel macello tribale, soldataglie ebbre e satrapi corrotti che ne divennero succubi illusi di manovrarle. L’Europa che si vantava della sua pace volse la testa per codardia dopo aver preteso di stabilire chi meritava uno status e chi no. I nostri pacifisti caricati a molla strillarono di guerra e di pace solo al decollo dei caccia USA e corsero ad Aviano a tirargli i bulloni con la fionda. Negli anni precedenti -sette anni di guerra cattiva, razzie stupri esecuzioni di massa pulizie etniche e tirassegno sui bambini- si erano limitati a discettare e dottamente sentenziare di nuovi equilibri strategici, nuovi fascismi, nuove resistenze e vecchio petrolio. Ignorando del tutto le “vittime innocenti” (le scoprivano solo ora), per sette anni si erano beati di rivivere le epopee titine della Seconda guerra mondiale poveri cici, e oggi a ogni anniversario di Srebrenica frignano tutti insieme grazie a facebook.

Io grazie a facebook ho saputo che Nina vive ancora.

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