Nel decreto del 21 giugno 2024 del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica (MASE) emanato allo scopo di individuare “superfici e aree idonee per l’installazione di impianti a fonti rinnovabili” si prescrive la verifica “dell’idoneità di aree non utilizzabili per altri scopi, ivi incluse le superfici agricole non utilizzabili”.
Ma cosa vuol dire “superfici agricole non utilizzabili”? Lo sono forse (ce lo spiega benissimo Serena Milano di Slow Food) i terreni agricoli siciliani dove gli agricoltori, percependo l’elemosina di 30 centesimi al chilogrammo del grano che coltivano, sono stati “costretti” a venderli ad una grande azienda multinazionale francese che li ha ricoperti di 122.000 pannelli fotovoltaici? Indicare in un D.M. i campi in abbandono come aree idonee è una follia visto e considerato che una ricerca del 2017 di Confagricoltura evidenziava come il nostro paese disponesse di una “superficie agricola utilizzabile” inferiore del 45% rispetto alla Francia e del 50% rispetto alla Germania. La “sovranità alimentare” vale meno della “sovranità energetica”? Non è una vergogna che un paese caratterizzato dalla tradizione della “dieta mediterranea” importi più del 50% di grano duro e più del 40% del grano tenero? Vogliamo renderci conto che se utilizzassimo solo la produzione italiana, troveremmo la pasta in vendita nei supermercati solo quattro mesi l’anno?
“Superfici agricole non utilizzabili” sono superfici che possono acquisire una funzione ecologica, economica e sociale allo scopo di ridurre la dipendenza dall’estero per il cibo, ma non solo. Fossimo anche autosufficienti nell’autoproduzione alimentare quei campi anziché di pannelli fotovoltaici si possono ricoprire di centinaia di migliaia di alberi facendoli diventare, alla pari dell’energia rinnovabile, delle necessarie infrastrutture (verdi) per una vera transizione ecologica. In Italia “superfici agricole non utilizzabili” è un’espressione ecologicamente infelice, proprio per il nostro fabbisogno di natura, di biodiversità, di suolo fertile e in totale controtendenza con la necessità di dare forma a quella “Nature Restoration Law” (Legge per il ripristino della natura) recentemente approvata dal Consiglio d’Europa e concepita con lo scopo di riportare in salute una serie di ecosistemi terrestri, forestali, agricoli e urbani.
Cosa c’è di più semplice ed ecologico di considerare aree idonee per l’installazione di pannelli fotovoltaici i tetti e le aree cementificate di qualsiasi natura e comunque già dotate di una rete elettrica di distribuzione?
Preferendo tali superfici al sacrificio dei suoli agricoli (solo “momentaneamente” non utilizzati) si darebbe coerentemente corso anche a quella parte del decreto in cui si scrive: “compatibilmente con le caratteristiche delle infrastrutture di rete e della domanda elettrica, nonché tenendo in considerazione la dislocazione della domanda, gli eventuali vincoli di rete e il potenziale di sviluppo della rete stessa”. Quale migliore occasione, attraverso l’utilizzo dei tetti delle abitazioni, dei tetti dei capannoni, delle aree di parcheggio, delle aree adiacenti infrastrutture, dei piazzali, per “rivoluzionare” la modalità di “approvvigionamento di energia” e investire sulla “produzione energetica diffusa”: una modalità per favorire la costituzione di “comunità energetiche” tra enti locali, istituzioni, aziende, famiglie che condividono la produzione di energia dal sole e la mettono in rete all’interno dello stesso territorio. Tra l’altro sarebbe un modo per ridurre la dipendenza dalle grandi compagnie e dalle fluttuazioni del mercato internazionale dell’energia. Con le “comunità energetiche” e una “produzione energetica diffusa” si può ridare una “funzione ecologica” alle superfici già cementificate e fermare nuovo consumo di suolo. Non per niente Jeremy Rifkin definisce le comunità energetiche come la possibile “terza rivoluzione industriale”. Il D.M., tra le altre cose, assegna a ciascuna regione una quota degli 80 GW da fonti rinnovabili da produrre entro il 2030. Al Veneto il D.M. assegna una quota di 5,8 GW. In Veneto la costituzione delle comunità energetiche, utilizzando anche solo parte delle notevoli superfici cementificate della regione, potrebbe addirittura, se non ci fosse questo immorale, pericoloso e divisivo mito dell’autonomia differenziata, “esportare energia” verso le zone interne del paese salvandole dalla pannellizzazione fotovoltaica ed essere così, a loro volta, in grado di diventare “infrastrutture verdi” per combattere le cause e gli effetti dei cambiamenti climatici o “infrastrutture per la sovranità alimentare” dell’intera nazione in un paese che ha quasi il doppio (7,14%) di suolo consumato rispetto alla media europea (4,2%).
Treviso 19 07 2024 – Contributo molto interessante…
Parole sagge.
a proposito del titolo dell’articolo: stamane in TV (La7) alla domanda “cosa fare per la transizione energetica” la senatrice Ronzulli (FI) ha candidamente risposto “non lo so”..