Ci stiamo avventurando ormai senza ritorno nelle canalicolari parole estive.
“Go ciapà na scaldada” e fin qua è tutto soffice, “Go ciapà na scotada” è già più serio ma poi quando tocca a “Go ciapà na broada” sono dolori. Siamo più o meno all’ultimo stadio, siamo all’ustione estiva, siamo al bollito fuori stagione.
A questo proposito un’espressione che mi è sempre piaciuta è “Ghe manca un bojo”, un tipo a cui manca un qualcosa, un po’ indrio, che non capisce, curto.
Broada vuol dire bollicine bianche sulla pelle, che scoppieranno, rossori bluastri inestetici.
Renzo, che scrive anche lui nelle pagine qui vicino, era sensibile, pelle chiara e lentiggini. Una volta si beccò una broada brutta sui piedi. Portava i sandali e quelle fresche aperture sulle calzature gli furono fatali e per i mesi successivi fu costretto a scarpe chiuse e calzini. Bianchi e infermieristici.
Broada è chiaro che ci porta ad allusioni gastronomiche, brodo brodaglia brodetto, lemmi distanti dalle nostre disavventure epidermiche anche se si potrebbe sicuramente cucinare un uovo sulla nostra bella pelle scottata e broada. Mettere un fazzoletto bagnato sul rossore oppure, tastando il figlioletto, dire che “El ga a fronte che broa” e telefonare ai nonni per l’assistenza dell’indomani.
Digressione. Una vera broada fu quella di cui fu il protagonista Domenico alle elementari. Gli scoppiò, in una gelida notte invernale, “la bottiglia dell’acqua”, la boule sotto le coperte. Per tutto il mese ci mostrò orgoglioso le ustioni in ricreazione. Invidia nei nostri occhi infantili.
Broà, scotà, brusà, brustoeà. Appoggiare per sbaglio una mano sul cofano bollente dell’auto. Camminare sulla sabbia incandescente (tanto sono pochi metri avevate detto prima). Aspettare la moglie al sole davanti ad un negozio (un minuto solo, dimenticato i biscotti, arrivo subito…).
Odio l’estate, cantava Bruno Martino nel 1960.