UN BRUTTO AFFARE (NON SOLO) BALCANICO

È il 1997. Due uomini confabulano in serbo nella sala d’attesa dell’a.d. della Telecom, a Roma. Sono tranquilli che le loro parole non possano essere udite, e soprattutto comprese, da nessuno. Momčilo (Momo) e Zoran alludono ridendo all’“affare” da discutere di lì a poco, in veste di mediatori, con i dirigenti dell’azienda telefonica italiana pre-Tim, e agli “extra” che ne verranno loro conseguentemente in tasca. Se tutto andrà a buon fine.

Il caso vuole però che, dall’altra parte del muro, ci sia qualcuno che accidentalmente ascolta, e quella contorta lingua balcanica la mastichi, per ragioni famigliari, abbastanza bene da fargli sospettare qualcosa di grosso e inquietante in ballo. E così, favorito dal suo ruolo professionale all’interno del colosso della telefonia pubblica – in procinto di essere ceduta ai privati -, l’udente involontario decide di indagare. Con la dovuta discrezione.

L’espediente scelto da Diego Zandel nel suo ultimo romanzo “Un affare balcanico” (Voland  2024, 192 pagg., 18 euro), per fare ingresso in un caso politico-mediatico clamoroso, che simboleggiò per una decina d’anni il conflitto insanabile e l’inconciliabilità genetica non solo fra due coalizioni di potere – centrodestra e centrosinistra, Casa delle libertà e Ulivo – ma fra due culture istituzionali agli antipodi, è efficace. Lo scrittore di origini fiumane e istriane nato in un campo profughi delle Marche e cresciuto poi nella Capitale, veste di nuovo i panni del suo alter ego letterario Guido Lednaz, già protagonista di precedenti gialli storici come “L’eredità colpevole” (sempre per Voland, 2023) e “I confini dell’odio” (Aragno 2002, Gammarò 2022).

Qui, Zandel si immedesima ancora di più nel suo investigatore sornione e bonariamente spavaldo, capace di districarsi con naturale intuito e un po’ di fortuna fra le situazioni più complicate e pericolose. E’ come lui giornalista, come lui figlio di esuli da Fiume, e – soprattutto – è anche lui responsabile della stampa aziendale di Telecom negli anni in cui si andava consumando il troppo dimenticato e sottovalutato (per le lezioni che se ne sarebbero dovute trarre, pensando all’oggi) conflitto in ex Jugoslavia. Con il tocco leggero che distingue la sua scrittura e una profonda conoscenza di usi, costumi, lessico e storia di tutta l’area che si stende dal corso del Timavo a quello dell’Ibar, Zandel-Lednaz riesce a rappresentare bene il “clima” torbido in cui il neo-liberismo globalizzato si espandeva speculando su guerre, miserie e rovine. Le privatizzazioni a cavallo fra i due secoli non hanno guardato in faccia a nessuno. Di sicuro, l’”affare Telekom Serbia” portò momentaneo ossigeno nelle casse di uno Stato “canaglia”, se pensiamo al ruolo nefasto avuto nelle guerre jugoslave, e tuttavia riabilitato dopo gli accordi di Dayton che chiusero la trucida pagina bosniaca.

Particolarmente accurata è la resa narrativa degli ambienti parassitari-criminali-affaristici, con propaggini anche a Roma, proliferati all’ombra del despota serbo Slobodan Milosević, che di lì a un paio d’anni si sarebbe gettato nella fatale (e per lui esiziale) avventura bellica in Kosovo. Ultimo atto della dissoluzione della vecchia Federazione titoista, di cui “Slobo” fu il becchino sognando la rinascita di una Grande Serbia a spese dei paesi vicini. In quella torbida terra di nessuno fra legalità e illegalità, Guido Lednaz si muove da scaltro “infiltrato” dell’azienda madre, grazie alla sua buona conoscenza della lingua e a una finta ingenuità che lo rende facilmente simpatico. Sullo sfondo, molto sfumata, resta la complessità del contesto politico italiano dell’epoca. Quello che ci riguarda più da vicino.

Proviamo, allora, a srotolare piano il nastro della memoria. Avvertendo che ricostruire una vicenda arroventata fin dall’inizio come il “caso Telekom Serbia”, significa innanzitutto squarciare il silenzio tombale che lo avvolge da parecchi anni. Da quando – per partire da un punto fermo incontrovertibile – una sentenza del tribunale di Roma mise la parola “fine” a quella che si rivelò essere una storiaccia di ambigua finanza e di cinismo istituzionale. La condanna a dieci anni di reclusione nel 2011 inflitta a un signore di nome Igor Marini, di professione faccendiere e truffatore incallito, certificò infatti che il bombardamento mediatico scatenato nel 2003 dai cannoni della stampa berlusconiana, o filo-berlusconiana, attorno all’acquisizione avvenuta sei anni prima – quando al governo sedeva Romano Prodi – del 29 per cento della società statale di telefonia serba da parte di Telecom Italia (oggi Tim), era fondata letteralmente sul nulla. Nessuna prova, nessun riscontro documentale. Calunnie allo stato puro. Un colossale falso, alimentato dal sospetto di pretese tangenti versate ai principali esponenti del centrosinistra in cambio di un effluvio di denaro (878 miliardi delle vecchie lire, pari a 893 milioni di vecchi marchi e a oltre 453 milioni di euro) finito a Belgrado, finanziando indirettamente un regime impresentabile come quello di Milosevic.

In sostanza: un perfetto colpo sotto la cintura nella lotta per il potere apertasi fra gli allora “due poli”, dopo la discesa in campo del Cavaliere.  Il discusso Marini, ex attore, ex stuntman, sedicente “conte”, con un discreto curriculum di denunce per truffa e un’indagine a carico per riciclaggio, accusò il gotha dell’Ulivo prodiano di aver intascato cospicui fondi neri per licenziare l’operazione finanziaria italo-balcanica. Sotto i riflettori del pubblico ludibrio, finirono Prodi, il cui presunto conto cifrato all’estero venne denominato “mortadella”, Piero Fassino, nel 1997 sottosegretario agli esteri, (conto “cicogna”), Lamberto Dini (conto “ranocchio”). Marini chiamò in causa pure la moglie di quest’ultimo Donatella, e altri nomi di spicco, Francesco Rutelli, Walter Veltroni, Clemente Mastella, Willer Bordon, nonché i cardinali Camillo Ruini e Carlo Maria Martini.

Per conferire autorità istituzionale e legittimare politicamente l’operazione, venne istituita anche una commissione parlamentare d’inchiesta, presieduta dal deputato Vincenzo Trantino (Alleanza Nazionale), della quale facevano parte fra gli altri il leghista Roberto Calderoli, gli aennini Italo Bocchino e Guido Crosetto, e i forzisti Carlo Taormina e Alfredo Vito. Tutto il castello accusatorio fu basato sulle rivelazioni sensazionali di Igor Marini, definito da un compiaciuto Trantino “Pico della Mirandola” per la sua “memoria prodigiosa”. Prodigiosa forse, fallace e truffaldina di sicuro. Tant’è che ne pagò un pesante prezzo giudiziario. Si parlò – da parte della stampa nazionale non di matrice berlusconiana – del primo e più grave utilizzo della “macchina del fango” a scopi politici. Cicogna-Fassino puntò l’indice contro il premier in carica definendolo il “burattinaio” dell’intera operazione. Berlusconi, di rimbalzo, lo querelò per calunnia chiedendo 15 milioni di euro a titolo risarcitorio. L’ex sottosegretario agli Esteri rinunciò all’immunità parlamentare per poter sostenere il procedimento intentato dal Cavaliere, dal quale venne infine prosciolto il 30 gennaio 2004. La commissione d’inchiesta, nel frattempo, esauriva il suo compito in un imbarazzato silenzio.

Senza redigere alcuna relazione conclusiva, come teoricamente richiesto dalla legge. La vicenda, da quel momento, cadde nell’oblio. Ma può essere utile, per chi voglia approfondire, andare a rileggersi le pagine dedicate a Igor Marini nel libro “Mani sporche” dei giornalisti Barbacetto, Gomez e Travaglio, pubblicato nel 2007.

Con il suo romanzo, Zandel offre, dunque, al lettore l’opportunità di ripercorrere a mente fredda anni cruciali per la storia non solo italiana. Ne esce ben delineato il quadro drammatico e cinico in cui si consumarono le guerre jugoslave, con riferimenti dolorosi ma pacati anche ai tormenti del confine orientale italiano nel secondo dopoguerra, di cui l’autore porta in sé tracce famigliari incancellabili. Anche quello dell’esodo giuliano-dalmata fu, per certi versi, un brutto affare balcanico. Sul quale è bene tenere desta la memoria.

Valerio Di Donato
Valerio Di Donato, giornalista e scrittore. Ha lavorato a lungo al "Giornale di Brescia", occupandosi di politica interna e estera approfondendo in particolare le vicende dell'area balcanica. Ha pubblicato due libri: "ISTRIANIeri. Storie di esilio", uscito nel 2006 con "Liberedizioni" di Gavardo, una serie di racconti di vita vissuta concernenti la storia degli esuli giuliano-dalmati e non solo. Nel 2021 ha esordito nel romanzo storico con "Le fiamme dei Balcani", per i tipi di "Oltre edizioni" di Sestri Levante.

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