Il libro pubblicato dalla Nuova Venezia e Mestre, Palude Venezia, provoca diverse riflessioni e numerosi ragionamenti.
Ma andiamo per ordine.
Il primo è sulla funzione del giornalismo d’inchiesta. È decisivo, fondamentale. Il “potere” nelle sue diverse espressioni non può essere lasciato “solo”. Non deve avere vita facile. Poco importa chi lo gestisca. L’informazione è un “contraltare” necessario ed insostituibile. E lo era ai tempi dello scandalo sul Mose così come lo è ora.
Può dar fastidio? Sicuramente si, e certo non solo ad una “destra” spesso leggibile nell’antipatia per le conseguenze della democrazia. A volte anche a sinistra ma ciò non può e non deve essere un problema. Viva il “fastidio”.
Vi è subito un ulteriore dato. Che non amo molto ma che è vero. Sento una reazione spesso spiacevole alla comunicazione di un atto contrario alla legalità. E cioè? È presto detto, due sono le risposte che mi è capitato di sentire.
La prima è frutto di un qualunquismo esasperato e spesso usato come pura copertura di altri pensieri: “Tutti rubano, questi o quelli, non cambia nulla”. È la classica reazione che evita di giudicare, consente di rimanere in un limbo, permette atteggiamenti sostanzialmente correi: quando tutti i gatti sono neri come puoi scegliere?
Ma è la seconda che più mi crea ansia e rabbia. A volte si lega a quanto ho appena scritto ed in altre è un ragionamento solitario: “Che me ne importa se ruba questo o quello. L’importante è che faccia le cose che credo utili e voglio siano fatte in città”. Insopportabile perché svela un “do ut des” che è l’inizio della corruzione prima di tutto “mentale”.
Quando ho cominciato a leggere il testo del libro avevo un certo disagio di cui non mi rendevo conto. Poi ho capito che veniva dal titolo. Faccio fatica ad accettare che la mia città sia chiamata “palude”. Poi ho pensato che nel mio lavoro i “titoli” sono metà della fatica e funzionano quando poi i testi sono letti. E allora ho deciso di “mettermela via”.
Il volume frutto di un lavoro collettivo si basa sull’atto di “accusa” della Procura e riporta in diversi casi anche la posizione della “Difesa”. È un buon lavoro, attento, ben costruito, chiaro. Ed ha un vero “altro” titolo che è anche il mio. Infatti non auspica o chiede condanne, non matura colpevolezze anche quando sarebbe facile farlo.
Il vero titolo che nulla c’entra con la giustizia ma che si incrocia con il “senso” della democrazia è chiaro: Venezia e le sue terre non possono essere un bene privato. Di nessuno.
Ed è per questo che non l’ho letto per vedere come va a finire, per scoprire l’assassino, per ritrovare il colpevole. Anzi ho capito quasi fin da subito che il problema non era quello.
So che molti amano l’urlo liberatorio, adorano la giustizia sommaria, giungono immediatamente alle conclusioni. Sono quelli che, nei gialli e non solo, saltano le pagine per arrivare prima alla fine. Io scaccio da me questo modo di essere, me lo impedisco a volte con spontaneità e a volte con fatica. Ma lo faccio.
Quindi il libro non mi ha affascinato perché volevo o potevo diventare “giudice”. Non lo sono e non voglio esserlo. Lasciamo lavorare in pace la Magistratura. Casomai lottiamo perché essa possa mantenere le condizioni di indagine e di verifica che appaiono fondamentali per poter gestire correttamente le indagini. E questo è solo un “pensierino” per il Ministro Nordio.
E allora torniamo al vero punto focale del libro.
Gli attori, i protagonisti della storia dimostrano con dovizia di particolari chi non può proprio fare l’amministratore pubblico. E cioè non può farlo chi ha interessi conclamati, corposi e ramificati nella “sua” città. Il libro dimostra in ogni parola questo assunto. E lo fa a prescindere dal risultato futuro dell’inchiesta. Perchè non si può avere nemmeno il dubbio che ciò che si fa sia legato ai propri interessi.
Quindi vi sono tante conseguenze. Tutte di tipo “politico”, tutte di buon senso, tutte per avere un clima di fiducia e non di sospetto. E queste sono per me il filo del racconto “politico e non giudiziario”, lo ripeto, del libro. E così si possono sottolineare le pagine cogliendo quello che certo doveva essere pensato prima. La “distanza” tra l’interesse privato e quello pubblico è cioè un pregio, un vantaggio, una grande opportunità.L’eccessiva vicinanza può divenire un limite, un problema.
C’è perfino un detto che ho sentito a volte ripetere e trovo indovinato: esso ricorda che quando si è al potere non si può essere solo onesti, bisogna anche sembrarlo.
Allora il libro consente pensieri congrui sul futuro. E cioè ripete, con ragioni precise ed evidenti, quel che si è già spesso tentato di dire. Venezia merita un governo nuovo, non reso tossico dagli interessi da qualsiasi parte nascano. E merita un programma che ne individui i destini, evidenzi le alleanze, faccia i conti con una realtà che ormai dimostra le sue “crepe”. Che sono soprattutto sociali, di lavoro, di opportunità.
E nel programma “l’etica” del governo, il libro lo dimostra, è irrinunciabile.
Si ringrazia la redazione della testata giornalistica “ytali.com” per averci concesso di riproporre l’articolo su “ILDIARIOonline”