Chiamiamoli necessità, oppure spirito vitale, o energia. Comunque volessimo definirli si tratta di impulsi che non restano confinati nel recinto di leggi incongrue e superate: la loro forza irreprimibile travolge gli steccati artificiosi. Prendiamo atto che nel mondo è un incessante brulicare di persone, per ragioni diverse. Non è importante se i motivi alla base di questo traffico siano politici, climatici, scientifici, economici o semplicemente di svago. Prima o poi qualche buon diavolo ci fa sentire il bisogno di andare da un’altra parte: in fondo anche il turismo è una sottospecie di questo bisogno umano che coincide con l’istinto di cambiamento. Dunque la società, specie quella contemporanea, richiede una permeabilità, un interscambio poroso che ne costituisce la vera ricchezza: senza questi movimenti a più livelli, forza lavoro, creatività e conoscenze scientifiche confrontabili, si rallenterebbe il percorso di ogni civiltà. L’Europa – e con essa l’Italia – deve predisporsi, non per la prima volta nella sua storia, con l’impellente necessità dei popoli ad essere reciprocamente accolti. Detta così, quest’affermazione potrebbe evocare nei cosiddetti soliti “pragmatici” sentimenti di ripulsa, equivocando su un sedicente ecumenismo d’accatto. Ma è opportuno affondare il coltello nel formaggio.

Tra i fautori dei confini aperti, si sentono non infrequentemente motivazioni degne di Ebenezer Scrooge (il personaggio egoista del racconto Canto di Natale di Dickens): l’Italia non fa più figli e la nostra economia tirerà le cuoia, senza l’apporto di famiglie di lavoratori stranieri. Ma non possiamo ragionare esclusivamente da tirchi ragionieri travestiti da benefattori: questa è una visione insufficiente che, se non fosse accompagnata da un genuino spirito egualitario e sinceramente moderno, puzzerebbe ancora di sottile opportunismo coloniale. Vero è che l’ISTAT stima che da 59,2 milioni di abitanti nel 2021 si passerebbe ai 57,9 nel 2030, per poi scendere a 54,2 nel 2050 Come spiega lo studio “Rinascita Italia”, se fossero esatte le previsioni Istat per il 2050, l’Italia subirebbe una perdita economica pari a 1/3 del Pil.  L’invecchiamento della popolazione, infatti, non causa solo una diminuzione della produttività, ma anche un aumento della spesa sanitaria e più in generale di welfare. Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti aveva lanciato l’allarme:” non c’è nessuna riforma previdenziale che tiene nel medio-lungo periodo con i numeri della natalità che abbiamo oggi in questo Paese”. Non nego perciò che queste siano argomentazioni sensate, e a loro modo auspicano un’apertura delle frontiere, ma restano impantanate nel solito profilo di spicciola convenienza senza visione.

Nella realtà una nazione è sana quando riesce a produrre progresso civile, innovazione. Quando assorbe tutte le componenti sociali, raccogliendo intorno a sé le forze giovani o meno giovani che possono dar spessore anche intellettuale a un Paese, in una strategia ragionata che comprenda il valore dell’apertura. Gli stati più evoluti si fanno un baffo di questioni che da noi scatenano ancora dibattiti surreali.

Fanno ridere (o accapponare la pelle) i distinguo di sordida matrice razziale per individuare chi siano i veri italiani, dimenticando che l’Italia è il prodotto della fusione di popoli insediati nel tempo, i quali – ogni volta – hanno apportato sangue fresco e novità: un popolo indo-europeo si è rafforzato nella fucina dei coltissimi greci e poi arabi di Sicilia, nel confronto con i celti e i galli, con gli ostrogoti di Pannonia, i fenici, le popolazioni etrusche provenienti dalla Turchia. Sono soltanto esempi con cui si è cucinata la nostra originale ricetta italiana. Rimestando nel calderone di epoche diverse, si ottiene che siamo il risultato di una prodigiosa mescolanza.

Mi fa inorridire la ristrettezza culturale di chi vorrebbe trattenerci in una campana di vetro con aria stantia, dove si respira il morbo del generale V. Le sue affermazioni sgradevoli sono state enfatizzate dai poderosi media asserviti alla politica, ma anche nel microcosmo nostrano moglianese vegetano già da tempo. Sconfortanti le parole pronunciate dall’allora presidente della Provincia di Treviso Leonardo Muraro, oggi riesumato nel ruolo di vicesindaco moglianese. In una delirante trasmissione televisiva, tra i fiori della sua esibizione, affermava concitato riferendosi alla sinistra: “volete portare qui gli uomini di colore per “bastardare” (sic) la nostra razza” (Tramissione Focus di Rete Veneta del giugno 2015). È bene vaccinarsi contro simili scadenti predizioni da bar… Preferisco virare bruscamente il discorso narrandovi un episodio di vita quotidiana.

Domenica mattina 18 agosto con parte della famiglia sono partito per assistere, quale invitato, a un battesimo alla Faith Tabernacle Congregation nella città di Padova: da qualche anno l’arco della mia vita si è incrociato con quello di una giovane famiglia nigeriana e abbiamo stabilito delle relazioni. Lui è un bravo ragazzo che, in osservanza di privacy, chiamerò D. Per giunta è di fede cristiana, se ciò a qualcuno degli scettici può significare qualcosa. Per diverso tempo, periodicamente aveva suonato al campanello della mia casa per chiedere un piccolo sostegno. È il destino di tanti immigrati che iniziano un nuovo percorso esistenziale partendo da sottozero. Per D. la costanza e la buona volontà sono state determinanti: ha trovato posto in un’industria di Trebaseleghe. In partenza dalla Nigeria aveva già in tasca un diploma in Business Administration, ma ha accettato con entusiastico realismo di fare l’operaio, un lavoro duro a produrre stampi in poliuretano che mettono a dura prova la schiena. Passo dopo passo sta costruendo il proprio avvenire. Abita in una casa piccola, in affitto, che tratta come una bomboniera. Ha potuto ricongiungere a sé la moglie e poi mettere al mondo due splendidi bambini, l’ultimo da pochi mesi. Ogni domenica, senza eccezioni, si reca nel tempio a Padova per la funzione religiosa; la moglie ha una voce stupenda e sa cantare i gospel, senza pretese di notorietà che non sia quella della piccola comunità dei fedeli. Dalla provincia veneziana dove abitano ci arrivano con l’auto molto usata, che non ha ancora finito di pagare. Come obiettivo, D. punta ad acquistare, con l’unico stipendio che gira in casa, un appartamento in proprio. Una storia popolare, del tutto simile a quella dei nostri genitori, simile a quella dei nostri figli di operai. Pelle diversa, stesso sangue, stessi progetti.

Domenica mi sono sentito ospite privilegiato di una comunità speciale. Mi è parso di venir sbalzato e ritrovarmi a una cerimonia in un altro continente: tre bianchi ricevuti a un rito privato tra gente di colore. Gente semplice vestita a festa nei suoi colori sgargianti, un sincretismo di moda africana e occidentale fantasioso. Nel tempio, ricavato in un minuscolo capannone in zona artigianale e arredato senza vezzi, una predicazione del caparbio celebrante James. Lunga, appassionata, martellante, echeggiante la Bibbia. La fede esemplificata in mille citazioni nella Provvidenza di Dio, da inculcare come facevano i religiosi dei nostri padri, parroci tutti d’un pezzo, adatta a persone non ancora pronte alle sottigliezze filosofiche. Mi torna in mente un libro di John Fante: Full of life. Un sermone rigorosamente in lingua inglese, unito a una traduzione simultanea che un bel ragazzo nato qui, perfettamente bilingue, ci ha offerto dal microfono. Squisito senso di accoglienza per ospiti poco attrezzati e quasi monolingui. I bambini, accanto alle rispettive madri, ricevevano uno snack per distrarsi e buoni buoni, al momento opportuno si inginocchiavano sul pavimento, coi gomiti appoggiati alle sedute in plastica azzurra. Col loro bravo cracker in mano da mordere. Ogni tanto una bimba irrequieta svolazzava tra i fedeli avvolta nel vaporoso vestitino di tulle rosso, i capelli crespi raccolti in tre ciocche in alto sul capo, simili a cespuglietti infiorati per la festa.

Dopo la cerimonia, in tanti sconosciuti sono venuti a darci la mano e a presentarsi: un gesto di attenzione per noi inabituale. Si è accostato anche Conrade e si è fatto riconoscere: a suo tempo anch’egli è venuto a suonare alla nostra porta, circa tre anni di pazienza. Con aria grata, nella sua bella casacca blu elettrico della festa e la voce baritonale, mi ha riassunto l’epilogo della sua avventura: ora è occupato stabilmente in un vivaio. Ne è orgoglioso.

La semplicità della vita disarma le discussioni strampalate sul sesso degli angeli, sui pregiudizi e le paure. La vita vera ci costringe ad essere normali.

Hallelujah.

Roberto Masiero
Roberto Masiero è nato da genitori veneti e cresciuto a Bolzano, in anni in cui era forte la tensione tra popolazioni di diversa estrazione linguistica. Risiede nel trevigiano e nel corso della sua vita ha coltivato una vera avversione per ogni forma di pregiudizio. Tra le sue principali pubblicazioni: la raccolta di racconti Una notte di niente, i romanzi Mistero animato, La strana distanza dei nostri abbracci, L’illusione che non basta, Dragan l’imperdonabile e Il mite caprone rosso. Vita breve di norbert c.kaser.

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